Si è svolto in Tunisia il convegno dal titolo "Savoir faire tutto italiano", organizzato dall’Unione coltivatori italiani (Uci), dal suo ufficio di sviluppo Hub Agroalimentare di Tunisi, cui ha partecipato il presidente dell'Unione coltivatori italiani (Uci) e vicepresidente Copagri, Mario Serpillo, in collaborazione con il sindacato agricolo tunisino Synagri.
Di seguito la relazione del presidente Mario Serpillo.
A seguito della maggiore attenzione per la qualità e per la salubrità dei prodotti agroalimentari, in particolare grazie agli effetti delle campagne di medici e nutrizionisti sui benefici della dieta mediterranea, in questi ultimi anni il consumo d’olio d’oliva nel mondo sta registrando una discreta ascesa. Finora gran parte del mercato mondiale del prezioso alimento è stato costituito dagli stessi Paesi produttori. Sono stati quasi esclusivamente – nell’ordine – greci, spagnoli, italiani e nordafricani ad arricchire le proprie pietanze con il prezioso e salutare condimento: non a caso i tre quarti del consumo globale è nell’area mediterranea e il 95 per cento delle piante di ulivo si trova nell’Europa meridionale e nell’Africa settentrionale. 2 Tuttavia, numeri incoraggianti vengono oggi da altri continenti: Giappone, Stati Uniti, Canada e Australia registrano da diversi anni un ricorso sempre più significativo all’olio d’oliva. Con percentuali d’incremento anche superiori al 10 per cento annuo, come in Giappone e negli Stati Uniti. Considerato che l’utilizzo dell’olio d’oliva rappresenta soltanto il 3 per cento dei consumi di grassi vegetali nel mondo, è evidente come sia enorme il margine di miglioramento per le esportazioni.
E’ certamente questo dato, relativo alle potenzialità del settore, a rappresentare un forte segnale di speranza per il futuro. I 19 Paesi che attualmente producono olio, appunto per lo più europei e nordafricani – le alternative più rilevanti sono costituite da Argentina, Australia e Giappone, con quote però minimali – si trovano ad affrontare sfide cruciali: il diktat è quello di promuovere ulteriormente le proprietà benefiche del cosiddetto “oro verde” e di migliorarne gli habitat di produzione. Il fine ultimo non è soltanto quello di incrementare la presenza nei mercati tradizionali, ma anche quello di conquistare nuovi spazi soprattutto nei territori dalle economie (e dalle consapevolezze alimentari) emergenti. Per fare ciò, il passaggio obbligato è lo sviluppo di nuove forme di collaborazione tra Stati produttori e tra sistemi economici affini, con lo scopo di confrontare esperienze finalizzate sia a migliorare costantemente la qualità del prodotto sia ad ottimizzare la commercializzazione sui mercati mondiali. Un’opzione strategica ed una visione completa dei processi produttivi che necessariamente 3 passano per la tracciabilità del prodotto e per la sicurezza alimentare, particolarmente importante per un alimento come l’olio d’oliva, emblema di salute e di equilibro.
Le proprietà salutari dell’olio d’oliva sono ormai accertate unanimemente dalla ricerca scientifica. Tanto che s’è arrivati al punto di portare alcune qualità d’olio con altissimi valori di antiossidanti sugli scaffali delle farmacie. E’ il caso dell’esperienza del marchio “Olife”, frutto di una partnership tra un’azienda agricola italiana e la prestigiosa Fondazione medica “Mario Negri Sud”. Dall’altra parte del mondo, negli Stati Uniti, in molti locali bar, come “Fig & Olive” a Los Angeles, “Krescendo” a Brooklyn e “Levant” a Portland, si stanno proponendo cocktail con aggiunte d’olio extravergine d’oliva per attenuare gli effetti dannosi dell'alcol. Tornando in Italia, a Roma è già in vendita, nel quartiere San Giovanni, gelato prodotto con olio d’oliva al posto del latte. Si tratta ovviamente di casi limite, che rientrano però in una letteratura scientifica ormai consolidata e fatta propria dalla normativa europea. Ad esempio, il Regolamento Ue 432/2012, in vigore da dicembre 2012, relativo alla compilazione di un elenco di indicazioni sulla salute consentite sui prodotti alimentari, stabilisce che “i polifenoli dell’olio di oliva contribuiscono alla protezione dei lipidi ematici dallo stress ossidativo”. In precedenza, il Regolamento CE n. 1924/2006 aveva già attestato nell’olio extravergine d’oliva la benefica presenza di vitamina E, potentissimo antiossidante naturale che contribuisce alla protezione delle cellule dallo stress ossidativo. Tutto omologato e certificato. 4 Insomma, anche sul piano della salute, il prezioso “oro verde” non manca di offrire presupposti e opportunità per la conquista di nuovi spazi. Questi attestati di salubrità, affiancati alle esperienze ordinarie, finiscono per avvicinare ed accomunare tra loro, sotto la bandiera di questo straordinario alimento, i territori produttori. In particolare quelli del bacino del Mediterraneo, insieme di luoghi sempre meno “espressione geografica” e sempre più ambìto “riferimento ideale”, ricco di confronti, di contaminazioni, di scambi, di convivenze nella diversità.
Aree geografiche che, benché plurime e composite, risultano particolarmente vicine per ragioni storiche ed artistiche più di quanto venga oggi percepito. Per Italia e Tunisia, nello specifico, il legame è anche rafforzato dall’essere sullo stesso podio dei maggiori produttori mondiali di olio d’oliva. Assimilati da condizioni climatiche favorevoli alla produzione e da un’esperienza plurimillenaria che ha radici già nella storia della civiltà mediterranea, ad esempio nelle pagine dello storico greco Tucidide che nel V secolo avanti Cristo scriveva che “i popoli del Mediterraneo cominciarono ad uscire dalla barbarie quando impararono a coltivare l’olivo”. Del resto, questo è un comparto economico fondamentale per entrambe le nazioni. Dopo la Spagna, che con 600mila tonnellate di prodotto detiene il primato mondiale e una quota di mercato di circa il 25 per cento, è la Tunisia ad aver conquistato di recente la seconda posizione con il 16 per cento pari a 280mila tonnellate (ne aveva soltanto 70mila nel 2013). A seguire a ruota è proprio l’Italia, che conserva il 15 per cento della produzione mondiale, anche se per i noti problemi di malattie delle piante ha perso circa il 35 per cento di prodotto tra il 2013 e il 2014 (dati Iooc). E’ il ricco scenario dei numeri a suggellare l’importanza del settore per entrambi i Paesi. Nonostante le difficoltà del momento, in Italia l’olivicoltura resta presente con circa 250 milioni di piante di ulivo in 19 regioni su 20, occupa un milione e 100mila ettari e garantisce due miliardi di euro di fatturato. La qualità è certificata da 538 varietà di cultivar corrispondenti a circa il 42 per cento del patrimonio mondiale e vanta 39 denominazioni Dop e una Igp riconosciute dall’Unione europea. I frantoi sono quasi seimila e la maggior parte della produzione proviene dalle regioni del Sud Italia, quelle più inserite nel sistema del Mediterraneo. Insomma, il mondo dell’olio d’oliva continua a far parte intrinsecamente della storia, dell’economia e degli stili di vita del Belpaese. La Tunisia, da parte sua, non è da meno. Con 50 varietà di olio, ha 65 milioni di piante di ulivo su una superficie di 16 milioni di ettari, di cui circa 75mila riservati alla produzione dell’olio biologico. Il prodotto tunisino è ormai esportato per il 70 per cento, la maggior parte del quale sfuso. Una percentuale che rappresenta il 40 per cento del totale delle esportazioni agricole e il 10 per cento del totale delle esportazioni nazionali. I dati degli ultimi mesi, poi, fanno registrare un vero e proprio boom: da novembre 2014 fino a metà febbraio 2015 sono partire per l’estero 72mila tonnellate d’olio d’oliva, ovvero la metà di quanto normalmente esportato dalla Tunisia. Un flusso imponente che ha 6 portato nella bilancia commerciale tunisina un attivo di 440 milioni di dinari, pari a 200 milioni di euro.
La Commissione europea, in questa campagna 2015 caratterizzata da cali consistenti in Spagna e in Italia, sta facilitando le esportazioni tunisine d’olio d’oliva nei Paesi membri: quelle concentrate tra febbraio e marzo sono passate da 5mila a 9mila tonnellate al mese, da aprile ad ottobre a 8mila tonnellate al mese. L’attenzione internazionale per la cooperazione nel settore ha però radici antiche. E’ sufficiente ricordare quel Consiglio oleicolo internazionale (Coi), creato nel 1959 sotto gli auspici delle Nazione unite, con sede a Madrid, che fornisce forum mondiali per discutere ed adottare le politiche per affrontare le sfide che attendono il settore. Ad esempio, l’applicazione di misure d’armonizzazione delle legislazioni nazionali relative alla commercializzazione dell’olio d’oliva o l’individuazione dei diversi tipi di frodi e di adulterazioni che potrebbero screditare il prodotto ed alterare l’equilibrio del mercato internazionale. Fanno parte del Coi 17 Paesi membri, tra cui l’Unione europea e la Tunisia.
Alle politiche dell’Unione europea e agli organismi internazionali di settore si accostano i numerosi programmi agricoli transnazionali e i progetti di cooperazione internazionale, come “Qualimed” tra Italia e Tunisia, capofila la Confindustria di Trapani. Tutto ciò dimostra, in un sistema sempre più integrato, come le relazioni tra i Paesi – e in particolare quelle italo-tunisine – rappresentino una sfida importante per il futuro del comparto. Del resto sono numerose le problematiche comuni che, affrontate in una logica di cooperazione, possono garantire le soluzioni più idonee: è il caso del passaggio generazionale dei produttori agricoli, delle dimensioni ridotte di molte proprietà terriere, dell’invecchiamento degli alberi, della scarsa diversificazione produttiva o delle conseguenze dei cambiamenti climatici, con precipitazioni sempre più irregolari che pongono nuovi problemi alle reti di irrigazione nelle aree rurali. E ancora, delle difficoltà di accesso al credito, dell’eccessivo peso della burocrazia e del malaffare, dell’inefficienza di molti uffici pubblici e dell’inadeguatezza di alcuni impianti normativi.
E’ analoga la necessità di disporre di una buona organizzazione in tutte le fasi della produzione, di garantire la formazione continua degli agricoltori, di consolidare la messa a livello degli oleifici, di promuovere e favorire i risultati della ricerca scientifica, di mettere in campo le migliori strategie di penetrazione per i mercati di esportazione, come gli Stati Uniti, dove il consumo cresce nelle ultime stagioni di circa il 10 per cento annuo, il Canada, la Russia, la Germania e soprattutto i Paesi asiatici, Giappone e Cina in primis. Il modello dell’olio italiano di qualità – si pensi a quello toscano, ligure o pugliese – può inoltre apportare benefici al sistema tunisino sul fronte della manutenzione dei terreni, della meccanizzazione (dalla raccolta alla triturazione, dal condizionamento alle apparecchiature di laboratorio), delle certificazioni, dell’internazionalizzazione, del marketing – ad esempio associato con il turismo – e della rappresentanza associativa e sindacale.
La Tunisia, da parte sua, in un bacino mediterraneo non certo omogeneo o monolitico, offre i valori più assimilabili a quelli europei, preziosi fattori propedeutici alla progressiva integrazione euromediterranea, con significativi processi di convergenza della struttura demografica e socioeconomica. Un paio di dati emblematici per comprendere come è cambiata la società tunisina negli ultimi anni: se nel 1970 il Paese registrava uno dei peggiori tassi di mortalità sotto i cinque anni del Nord Africa, pari a 187 decessi su mille nati vivi, oggi quel dato si è ridotto di ben dieci volte, presentandosi come uno dei migliori del Grand Maghreb. Analogamente la speranza di vita, nello stesso periodo, è passata da 54 a 76 anni, la più alta dell’area. Si tratta di processi che arricchiscono di nuovi fermenti i rapporti bilaterali tra i Paesi alle sponde opposte del Mediterraneo, tradizionalmente ricchi di buoni propositi – si pensi alla Dichiarazione di Barcellona del 1995 o al summit di Parigi del 2008 – ma non sempre idonei nel cogliere i reali processi di transizione socio-economica e i tasselli dei nuovi scenari emergenti. Nonostante l’Italia occupi una posizione rilevante come partner privilegiato di diversi Stati, Tunisia compresa. Il Mediterraneo, in questa fase di crisi per i Paesi ubicati sulle sponde settentrionali (Grecia, Italia, Spagna, Portogallo…), sta vivendo invece – pur in una realtà asimmetrica – profonde trasformazioni politiche ed economiche nelle nazioni nordafricane, che si collocano ormai per reddito e speranza di vita, i due indicatori socio-economici di base, ben 9 al di sopra degli altri Paesi africani, benché ancora lontani dal novero degli Stati più fortemente industrializzati. Il pieno dispiegamento delle potenzialità appare indissolubilmente legato non solo all’esito dei processi di riassetto politico-istituzionale e normativo dell’area, ma anche alla capacità di fare sistema da parte degli Stati e degli apparati economici, compresi quelli agroalimentari.
La strada obbligata, per l’Italia, è quella di intraprendere una cooperazione a lungo termine con il Paese nordafricano, al fine di creare partenariati agricoli e industriali destinati a generare vere e proprie filiere agroalimentari. Nel dettaglio, è necessario dare impulso a nuove relazioni tra le imprese, rafforzare gli scambi commerciali e favorire gli investimenti: obiettivi che rappresentano tasselli di un proficuo mosaico per fissare legami permanenti tra gli uffici istituzionali e tra i sistemi imprenditoriali dei due Paesi e per garantire maggiore forza nella penetrazione in nuovi mercati.