Non se ne parla mai a sufficienza, ma la pesca rappresenta un comparto rilevante e fondamentale per l’economia italiana. Incarna anche una funzione sociale e culturale nelle molte comunità di mare del nostro Paese. Nonostante questo settore stia subendo negli ultimi anni una crisi nera, soprattutto in Italia, a causa di mari sovrasfruttati e di stock ittici ormai allo stremo, tuttavia la performance economica europea è in crescita, passata dai 6.285 ai 7.156 miliardi di euro tra il 2008 e il 2011. Il nostro Paese riveste un ruolo primario nel vecchio continente: la flotta di imbarcazioni con bandiera italiana è composta da poco meno di 13mila unità, pari a quasi il 15 per cento del totale comunitario. Davanti a noi c’è soltanto la Grecia. Dietro, Spagna e Portogallo. Però, va aggiunto, il numero delle imbarcazioni dal 1992 al 2011 è stato in costante diminuzione, ad una media di circa l’1,5 per cento all’anno. E si tratta, in maggioranza, di imbarcazioni vecchie. Inoltre, tra gli Stati membri, scendiamo al settimo posto per numero di catture calcolate come tonnellate di peso vivo. Siamo dietro a Danimarca, Spagna, Regno Unito, Francia, Olanda e Irlanda.
Riguardo ai pesci più pescati dal nostro Paese, dominano le acciughe (21,7 per cento), seguite dalle vongole (9,2) e dalle sardine (6,8). Non a caso il nostro ridimensionamento della capacità di pesca è stato particolarmente consistente tra il 2000 e il 2005, a causa principalmente della forte riduzione delle catture di acciughe. Le cifre fanno parte del rapporto “Facts and figures on the common fisheries policy” (“Fatti e cifre sulla politica comune della pesca”) della Commissione europea, l’ultimo pubblicato nello scorso febbraio. Il dato più emblematico, però, è che la Cina da sola occupa ormai oltre un terzo del mercato globale della pesca, mentre l’Unione europea ha una quota intorno al quattro per cento. Il solo Oceano Pacifico fornisce il 53 per cento delle catture mondiali, mentre il nostro Mediterraneo rappresenta solo l’1,7 per cento. Attenzione, però: essendo il Mediterraneo molto più piccolo di un oceano, il rapporto catture per chilometro quadrato pone il nostro mare leader nella pesca. Occorre, inoltre, tenere conto che le imbarcazioni europee pescano in tutti i mari del mondo, addirittura due su tre nell’Atlantico nord-orientale, solo l’8,85 per cento in Mediterraneo.
Per chiudere il quadro statistico, un accenno all’acquacoltura, industria d’allevamento in forte espansione, che ha raggiunto una percentuale del 20,4 per cento del totale del volume di tutta la produzione della pesca europea. L’Italia in questo settore è al terzo posto con circa il 15 per cento della produzione totale, dopo Spagna e Gran Bretagna. La metà del totale delle produzioni da allevamento è rappresentato da molluschi e crostacei. Per l’Italia – e per l’Europa comunitaria – la bilancia commerciale è però in passivo. Importiamo oltre 16 milioni di tonnellate di prodotto (circa 1,6 milioni l’Italia) soprattutto da Norvegia (22 per cento) e Cina (9 per cento). Ciò perché in Europa ogni persona mangia in media 23,3 chili di pescato all’anno, mentre in Italia siamo leggermente sopra la media con 25,4 chili. La media mondiale è di 17,8 chili. In Italia si acquistano principalmente orate e branzini, tonno e sardine.
La crisi italiana
La recessione, che da ormai quasi un decennio sta falcidiando il nostro Paese, include anche il settore ittico. Negli ultimi dieci anni l’occupazione è scesa del 40 per cento, la redditività delle imprese è diminuita del 31 per cento, mentre i costi di produzione sono aumentati del 53 per cento. Tra il 2002 e il 2007 c’è stata una riduzione di 4.635 addetti del settore, conseguenza soprattutto del divieto di alcuni tipi di pesca e della riduzione dei livelli di remunerazione. Una situazione, in fondo, analoga a molti comparti agricoli. Nella pesca si registrano gli aumenti insostenibili dei beni energetici, si pensi al caro gasolio, ma anche la spietata concorrenza dei Paesi asiatici, in genere poco regolamentati con le rigide norme provenienti da Bruxelles. Ci sono poi ulteriori problemi, tra l’altro molto complessi a causa di un comparto estremamente eterogeneo. Emergono, ad esempio, le differenze tra regione e regione: l’incidenza della piccola pesca varia tantissimo tra Adriatico e Tirreno. Altre diversità riguardano le pratiche specifiche, con l’adozione di peculiari attrezzi o tecniche. Non mancano contrasti tra pescatori, armatori, distributori e commercianti. Un’altra questione riguarda le forme contrattuali per imprese prevalentemente a carattere artigianale e familiare. I contratti sono riconducibili a tre tipologie fondamentali: salariale, “alla parte” e a gestione autonoma. Di fatto il contratto “alla parte” dei marittimi, un tempo remunerativo, oggi non garantisce più la serenità economica del pescatore. Le più recenti proteste dei lavoratori riguardano proprio la richiesta che cambi il metodo di retribuzione, cioè si esige un fisso più un premio di produzione, con la previsione di ammortizzatori sociali in caso di licenziamento.
Ma il vero problema viene dal conto presentato dal mare, dopo stagioni di pesca forsennata tutto l’anno. Tante specie non si trovano più. In Sicilia, ad esempio, stanno scomparendo i gamberi, che garantivano ottimo reddito. A Mazara del Vallo è vera e propria emergenza che pende come una spada di Damocle su 1.800 pescatori, più altre duemila persone dell’indotto. Sotto accusa anche i mega pescherecci. C’è un documento di Greenpeace, intitolato “Monster Boats, flagello dei mari”, da cui emerge che una ventina di imbarcazioni della flotta europea, in particolare francesi, metterebbero in atto una pesca eccessiva in tutti i mari e gli oceani del mondo. Secondo le stime, la flotta dell’Unione europea pescherebbe dalle due alle tre volte al di sopra del limite di sostenibilità con metodi distruttivi come i Fad (sistemi di aggregazione per pesci). Alcuni pescherecci possono arrivare a prendere oltre 2.000 tonnellate di tonno in una sola battuta di pesca.
In base ai dati della Fao, il 90 per cento degli stock ittici mondiali sono pienamente o eccessivamente sfruttati. Nel Mediterraneo, ben il 96 per cento delle specie di fondale è sottoposto allo sfruttamento eccessivo e per gli stock di acque intermedie come la sardina e l’acciuga, la percentuale è del 71 per cento. “I governi europei non possono chiudere gli occhi di fronte alla pesca eccessiva e spesso illegale. Devono eliminare dalle loro flotte industriali quei mostri che stanno svuotando i nostri mari e sostenere invece i pescatori artigianali che pescano in modo sostenibile – spiega Serena Maso, campaigner mare di Greenpeace Italia. L’associazione ricorda che le compagnie che producono tonno in scatola dovrebbero assumersi un atto di responsabilità e scegliere i loro fornitori in base ai metodi di pesca.
Un dossier a cura di Oceana, l’Ong internazionale per la difesa del mare, denuncia nello specifico anche la flotta italiana perché violerebbe le attuali misure internazionali di pesca in vigore per il pesce spada in Mediterraneo. In effetti gli ispettori dell’Unione europea nel 2013 hanno accertato una serie di violazioni che spaziavano da quelle sul limite della pesca, al rispetto della chiusura della stagione. Nei giorni 15 e 16 dicembre 2015 si svolgerà a Bruxelles il Consiglio dei ministri degli Stati membri, nell’ambito del quale saranno discusse alcune proposte sulla pesca, che entreranno in vigore dal 1º gennaio 2015. E’ il caso del pacchetto sugli stock ittici anche dei tonni, che per la prima volta si baserà sulla nuova Politica comune della pesca (Pcp) e che dovrebbe rispettare l’accordo sul rendimento massimo sostenibile (Maximum Sustainable Yield, Msy) per cui tutti gli stock dovrebbero essere sfruttati a livelli sostenibili (Msy).
L’Italia, comunque, ha recentemente ottenuto che l’arresto temporaneo delle attività di pesca sia considerata una misura tecnica utile per assicurare un’adeguata tutela delle risorse biologiche. Fino al 2005, invece, il fermo veniva considerato come aiuto di Stato che doveva essere approvato in via preventiva dalla Commissione europea. Di recente si segnala una battaglia portata avanti dal Movimento 5 Stelle in sede europea. I pentastellati sono intervenuti sullo spinoso problema delle “reti da posta derivanti”: si tratta di strumenti di pesca che, utilizzando delle reti molto lunghe (prima del 1992 potevano superare i 2,5 chilometri) e molto profonde (fino a 40 metri di altezza), possono catturare delle specie a rischio e compromettere l'ecosistema marino. La Commissione avrebbe voluto vietarle del tutto, presentando al Parlamento europeo una proposta di soli quattro articoli: dal mar Mediterraneo a quello del Nord divieto assoluto per i pescherecci di tenere a bordo queste reti. Così facendo però la Commissione avrebbe rischiato di mettere in ginocchio l’intero settore della pesca, soprattutto quello a piccola conduzione familiare che, a causa della crisi, è già in forte difficoltà particolarmente nel Sud Italia, in Spagna e in Grecia. L'europarlamentare Marco Affronte, relatore per la Commissione Ambiente, ha presentato una proposta alternativa: ogni Stato membro ha la facoltà di decidere caso per caso, scegliendo tra il bando totale o la deroga a questo divieto fino al 31 maggio 2017. Nel frattempo l'Unione europea ha il tempo di raccogliere tutti i dati sull’impatto di queste reti sulle specie protette, le conseguenze socio-economiche sulle aziende ittiche. Potrebbe, infine, arrivare ad una definizione univoca sul cosa sia una “rete da posta derivante”, trovando degli standard e dei criteri che garantiscano scientificamente la salvaguardia di pesci non target.
La riforma del 2014
Dal 1 gennaio 2014 è entrata in vigore la riforma della Politica comune della pesca, approvata da Consiglio e Parlamento europeo. La nuova Politica mira principalmente a riportare gli stock ittici a livelli sostenibili, ponendo fine alle pratiche di pesca che comportano uno spreco di risorse. Tra gli obiettivi, anche la creazione di nuove opportunità di occupazione e di crescita nelle zone costiere. La nuova politica prevede il divieto dei rigetti in mare, il rafforzamento dei diritti nel settore ittico, il decentramento del processo decisionale, il potenziamento dell’acquacoltura, un sostegno alla piccola pesca, il miglioramento delle conoscenze scientifiche riguardanti lo stato degli stock e l'assunzione di responsabilità nelle acque dei paesi terzi attraverso accordi internazionali dell’Unione europea. Il Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (Feamp) è lo strumento di finanziamento che fornisce sostegno all’attuazione della riforma, con l’obiettivo di sviluppare l’economia blu in Europa. L’approdo alla riforma è stato particolarmente articolato.
Il 13 luglio 2011 la Commissione europea aveva presentato il cosiddetto “pacchetto pesca”, includente una serie di provvedimenti (da comunicazione e proposta di regolamento sulla riforma, agli atti sull’organizzazione comune dei mercati della pesca e dell’acquacoltura, sulla dimensione esterna della politica comune della pesca, sulla conservazione e lo sfruttamento sostenibile delle risorse della pesca nell'ambito della Politica comune della pesca. Le proposte legislative della riforma sono state approvate secondo la procedura legislativa ordinaria (articolo 294 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), al termine di un lungo negoziato. I rispettivi regolamenti n. 1380 del 2013 sulla politica comune della pesca e n. 1379 del 2013 sull'organizzazione comune dei mercati sono stati pubblicati nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 28 dicembre 2013. Tra i principali elementi della riforma, nel dettaglio, c’è il “rendimento massimo sostenibile”. In sostanza i pescatori devono rispettare il “rendimento massimo sostenibile” (Msy, Maximum substainable yield), cioè devono pescare non più di quanto un determinato stock ittico possa riprodursi in un dato anno, al fine di non minacciare la riproduzione degli stock, consentendo nel contempo ai pescatori di ottenere il massimo delle catture. Tale obiettivo è fissato nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare ed è stato confermato nell’ambito del Vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile del 2002 come obiettivo mondiale da raggiungere nella misura del possibile entro il 2015 e comunque per tutti gli stock entro il 2020.
Inoltre, ai piani di gestione pluriennali relativi a singoli stock sono subentrati piani basati sui tipi di pesca. Questo per consentire di includere più stock ittici in un minore numero di piani e di conseguire più efficacemente l’obiettivo di sostenibilità. Nell’ambito di tali piani, vengono stabilite le possibilità di pesca annuali. Inoltre, i piani possono includere altre misure tecniche e di conservazione che fanno parte dell’insieme di strumenti proposti. Le attività di pesca dell’Unione vengono gestite secondo un approccio basato sugli ecosistemi nel rispetto del principio precauzionale, allo scopo di limitare gli impatti sull’ecosistema e salvaguardare così le risorse marine. Altro punto della riforma, il divieto dei rigetti in mare. I rigetti in mare rappresentano circa il 23 per cento delle catture totali. Tale pratica sarà gradualmente eliminata, tra il 2015 e il 2019, secondo un calendario preciso di attuazione e attraverso alcune misure di accompagnamento. I pescatori avranno l’obbligo di sbarcare tutte le specie commerciali che catturano. Le catture residue di pesci sottotaglia non potranno di norma essere vendute per il consumo umano.
Gli Stati membri dovranno garantire che i loro pescherecci siano dotati di attrezzature che consentano di documentare tutte le attività di pesca e di trasformazione, in modo da monitorare il rispetto dell’obbligo di sbarcare tutte le catture. Le regole de minimis sono state modificate in modo che l'esenzione possa essere applicata attraverso piani di gestione sulla base di pareri scientifici e limitato ad un massimo del 5 per cento del totale delle catture annuali. Nel corso del negoziato, l’Italia ha contribuito a fare fissare quest’ultima percentuale che originariamente era del 7 per cento e ha ottenuto che le nuove norme si applichino solo alle specie per le quali è fissata una taglia minima in base alle norme sulla pesca nel Mediterraneo. L’obbligo di sbarcare tutto il pescato – salvo la citata percentuale – scatterà nel 2015 per i pesci di taglia piccola come acciughe e sardine; per le altre specie del Mediterraneo (dai naselli alle triglie e alle vongole) l'obbligo scatterà invece il 1° gennaio 2019. Gli Stati membri devono inoltre garantire che la capacità della flotta (numero e dimensioni delle navi) sia commisurata alle possibilità di pesca, adottando opportuni piani d’azione per i segmenti nei quali si riscontri un eccesso di capacità. Il mancato conseguimento, da parte di uno Stato membro, della necessaria riduzione della capacità può dare luogo alla sospensione del sostegno finanziario dell’Unione europea. La riforma estende fino al 2022 il diritto degli Stati membri di limitare le attività di pesca entro una zona di 12 miglia nautiche dalla linea costiera.
Grande attenzione anche all’acquacoltura. Gli Stati membri devono predisporre piani strategici nazionali finalizzati a migliorare le condizioni per l’acquacoltura, eliminare gli ostacoli amministrativi e promuovere il rispetto di norme ambientali, sociali ed economiche per il settore dell’allevamento ittico. Spetta, infine, agli Stati membri occuparsi della raccolta, del trattamento e della condivisione dei dati sugli stock ittici, sulle flotte e sull’impatto della pesca a livello dei bacini marittimi. Le politiche sono adottate tenendo conto dei migliori pareri scientifici disponibili. Per coordinare questa attività sono istituiti programmi di ricerca nazionali. Novità anche per la politica di mercato: le organizzazioni di produttori possono acquistare i prodotti della pesca quando i prezzi scendono al di sotto di un certo livello e immagazzinarli per poi reintrodurli sul mercato in una fase successiva. Questo sistema è volto a favorire la stabilità dei mercati. Le organizzazioni di produttori debbono contribuire maggiormente alle attività collettive di gestione, monitoraggio e controllo. Nuove norme di commercializzazione in materia di etichettatura, qualità e tracciabilità mirano a fornire informazioni più chiare ai consumatori e li aiuteranno a promuovere una pesca sostenibile. Alcune informazioni sull’etichettatura sono obbligatorie, altre possono essere fornite su base volontaria.