La conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico aprirà oggi a Parigi. Da questa edizione i governi dei singoli paesi sono chiamati ad inviare le loro proposte (piani d’azione sul clima) per ridurre le emissioni di gas a effetto serra, segnando un ribaltamento dello schema classico usato fino ad oggi.
Il tema è di fondamentale importanza, perché se le emissioni non avranno un’inversione di tendenza avremo un innalzamento delle temperatura superiore ai 2°C (si teme quota 2,7°) entro il 2100. Con ghiacciai che si scioglieranno e conseguente innalzamento del livello del mare fino a 70 metri, desertificazioni massicce e carestie unite a migrazioni bibliche. L’obiettivo del vertice è quello di contenere entro i 2° l’innalzamento della temperatura.
L’Unione Europea, come soggetto unitario, si impegnerà a ridurre globalmente le proprie emissioni del 40% rispetto ai livelli del 1990, entro una data vicina, il 2030. Lo scorso anno i 28 paesi membri hanno siglato un patto, vincolante e con tanto di sanzioni in caso di mancato rispetto degli obiettivi, il che fa comprendere come il vecchio continente sia il soggetto politico più sensibile al tema.
L’Italia, responsabile di poco più dell’1% delle emissioni mondiali, è determinata a giocare un ruolo da protagonista. Probabilmente il ministro Galletti chiederà di fissare l’obiettivo ancora più in alto, arrivando a proporre di stabilire l’aumento consentito della temperatura a 1,5°anziché 2°, con obiettivi qualificati e misurabili ogni 5 anni.
Roma proporrà, poi, di valutare l’inserimento di una carbon tax, mentre la Francia desidera un accordo sufficientemente ambizioso e giuridicamente vincolante, per raggiungere l’obiettivo dei due gradi; si dovrà trovare un equilibrio tra l’approccio di Kyoto – una suddivisione quasi aritmetica degli impegni di riduzione delle emissioni, a partire da un comune limite massimo consentito – e quello di Copenhagen (2009), un insieme di impegni nazionali non costrittivi e quindi blandi.
La Cina, da sempre restia a fornire dati ed informazioni ufficiali, si impegnerà a ridurre le proprie emissioni (fino al 65%) a partire dal 2030, e farà partire dal vicino 2017 un piano nazionale di scambio di emissioni di carbonio, anche se nessuno sa a quanto ammontano le emissioni cinesi.
E gli Stati Uniti? Prometteranno di dare una sforbiciata tra il 26 ed il 28% sulle emissioni, rispetto a quelle del 2005, entro il 2025. Obama ha avviato una serie di accordi separati in materia; uno è quello con la Cina dell’autunno 2014, l’ultimo in ordine di tempo risale allo scorso luglio e coinvolge la maggiore economia dell’America Latina, il Brasile.
Sostanzialmente le due potenze si impegnano ad accrescere, nel giro di poco, la produzione di energia da fonti rinnovabili, idroelettrico escluso, privilegiando solare, eolico e biocarburanti.
E i produttori di petrolio, in teoria quelli meno interessati a centrare gli obiettivi del Cop21, che fanno? L’Arabia Saudita taglierà del 30% le proprie emissioni (non ha specificato rispetto a quando) ma solo purché i profitti derivanti dal petrolio rimangano alti; una formula particolare
Intanto, l’organizzazione meteorologica mondiale (la Wmo) ha fatto sapere che il 2014 è stato l’anno record (in negativo) delle concentrazioni delle emissioni (”The greenhouse gas bulletin 2014”) mentre la Nasa e l’agenzia giapponese Jma hanno concluso, in via preliminare, che il 2015 ha le carte in regola per divenire l’anno più caldo da quando esistono le rilevazioni, il 1880.
L’impressione pre-vertice è che, mancando un accordo collettivo e vincolante, si otterrà un successo a metà. Probabilmente si riuscirà a conseguire comunque un risultato, seppur di breve/medio periodo; ritardare il raggiungimento della soglia critica. Ma il rischio fondato di incorrere in grossi guai tra 30 o 40 anni persiste.
E forse la finanza avrà un ruolo decisivo poiché in mancanza di buona volontà collettiva solo adeguati strumenti finanziari (leggasi aiuti o sussidi) potranno indurre gli stati a compiere sforzi davvero più significativi.