Può la coscienza dell’uomo, seppure in mezzo a tanto sgomento, non caricarsi di alcun fardello di fronte a tragedie come lo sciame sismico che da agosto ha colpito a più riprese il Centro Italia? E’ legittimo che amministratori e decisori pubblici ogni volta levino lo sguardo al cielo in segno di impotenza invocando la clemenza della sorte affinchè il terremoto risparmi concittadini, beni e strutture?
E fino a quando si continuerà a indicare l’imprevedibilità del sisma come l’insormontabile fattore di scompiglio del normale sistema di regolazione e organizzazione della vita pubblica? Infine, può ritenersi realmente sicura un’abitazione decretata ‘a norma antisismica’ se alla fin dei conti l’infrastruttura di riferimento è conforme ad una norma inadeguata o di fatto superata? Se un edificio viene definito ‘agibile’ vuol dire che è effettivamente antisismico?
Questi, gli interrogativi che lacerano ulteriormente l’animo innanzi alla devastazione causata dal terremoto che ha raso al suolo Amatrice, Accumoli, Pescara del Tronto e Arquata lo scorso 23 agosto e dalla seconda sequenza sismica di fine ottobre con epicentro tra Norcia e Preci. Una tragedia che si è consumata quattro anni dopo lo sciame che mise in ginocchio l’Emilia-Romagna e a sette anni di distanza dal terremoto che distrusse la città di L’Aquila e i paesi limitrofi.
Quello che si è riproposto negli ultimi mesi è un vecchio e triste copione e il pensiero corre inesorabile al monito che da Ginevra l’Agenzia dell’ONU per la riduzione dei rischi delle catastrofi (nota con la sigla UNISDR ) ha inteso rivolgere al nostro Paese: <<Costruire un edificio nuovo nel rispetto delle norme antisismiche fa lievitare la fattura del 3-5 per cento. Risparmiare una cifra ridicola e non rispettare le norme di sicurezza è un gesto criminale>>. Ma è assai amaro constatare che si tratti di un avviso espresso nel lontano aprile 2009, all’indomani della tragedia di L’Aquila. Al medesimo periodo risale pure il parere formulato da Rui Pinho, che allora come oggi insegna meccanica strutturale all'Università di Pavia e dirige il settore rischio sismico del Centro Europeo di formazione e ricerca in ingegneria sismica: <<Non esiste terremoto in grado di far crollare un palazzo costruito adottando tutti i dispositivi dell'ingegneria antisismica. A crollare per una magnitudo 5 o 6 è una minima percentuale degli edifici, eppure qui il terremoto è così disastroso da lasciare difficilmente sopravvissuti. L’Italia ha una normativa e un livello della ricerca che sono all’avanguardia nel mondo, ma il vero punto debole è l’applicazione delle leggi>>. Per arrivare a quanto denunciato, a gennaio di quest’anno, nello Speciale “100 anni di Ingegneria Sismica” pubblicato sulla Rivista “Energia, Ambiente e Innovazione” dell’ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile) – nel centenario del terremoto di Avezzano che nel 1915 uccise 30mila persone e distrusse venti centri abitati – secondo cui <<oltre il 70% dell’edificato attuale italiano non è in grado di resistere ai terremoti che potrebbero colpirlo, comprese scuole, ospedali e molti altri edifici strategici>>. L’ente di ricerca ha pure puntualizzato che tale condizione sussista nonostante il nostro Paese sia tra i primi al mondo per numero di strutture protette da sistemi antisismici (dopo Giappone, Cina, Russia e Stati Uniti) e per dispositivi anti-terremoto a tutela del patrimonio culturale, nonché primo in Europa per l'applicazione dell'isolamento e dissipazione di energia su edifici, ponti e viadotti.
Tutto induce purtroppo a concludere che l’Italia sia affetta da una grave anemia di cultura della prevenzione sismica e la relativa domanda sociale sia legata soltanto a quel forte coinvolgimento emotivo che le perdite umane e materiali causate dai terremoti più funesti generano in tutta la popolazione e che tuttavia è destinato a pulsare per lassi di tempo limitati. Certamente innegabili si rivelano i progressi maturati nella gestione delle emergenze e le crescenti capacità dell’intero Sistema di Protezione Civile, ma è altrettanto vero che questo vale solo a fronteggiare le difficoltà dei sopravvissuti. La via maestra per mitigare il rischio sismico è proprio quella della prevenzione, basata su due strumenti rilevanti: la classificazione sismica (che consiste nella definizione di zone a diversa pericolosità per le quali sono stabilite norme vincolanti per le costruzioni e connesse procedure di gestione e controllo delle attività edilizie ed urbanistiche) e la normativa antisismica (che detta i criteri per costruire una struttura in modo da ridurre la sua tendenza a subire un danno, in seguito ad un evento tellurico). E sebbene sia a tutti da tempo presente che il nostro Paese è fortemente sismico, l’introduzione di classificazione e norme antisismiche è avvenuta con un ragguardevole ritardo, da cui dipende l’odierno livello elevato di rischio.
A partire dalla disastrosa scossa nello stretto di Messina del 28 dicembre 1908, per quasi settant’anni in Italia i Comuni sono stati classificati come sismici – e di conseguenza assoggettati a norme restrittive per le costruzioni – solo a seguito di gravi danni causati dai terremoti, dunque in maniera episodica. Tutte le aree colpite furono dal 1927 suddivise in due categorie correlate al grado di sismicità e alla costituzione geologica e la cartina sismica italiana si sostanziava nel mero elenco delle località danneggiate dalle scosse telluriche avvenute dopo il 1908, mentre tutte quelle colpite prima di allora e che rappresentavano quasi la totalità dei contesti territoriali sismici d’Italia non furono classificate come tali e non vennero sottoposte ad alcun obbligo di costruzione rispettosa di prescrizioni antisismiche. Sicchè l’originaria mappa riportava i Comuni di Sicilia e Calabria colpiti dallo sciame del 1908 e di volta in volta veniva modificata al verificarsi di nuovi terremoti con l’inserimento delle nuove città danneggiate. Occorrerà attendere il 1974 (sulle macerie del terremoto di Ancona) e più segnatamente la Legge n. 64 del 2 febbraio, recante “Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche” e ancora in vigore, per un primo importante intervento normativo sulle modalità di classificazione sismica del Paese e di redazione delle norme tecniche, che si stabilì dovessero realizzarsi sulla base di comprovate motivazioni tecnico-scientifiche, con la possibilità di aggiornare o modificare le relative previsioni all’avanzare delle conoscenze dei fenomeni tellurici. E venne demandando al Ministero dei Lavori Pubblici l’emanazione con specifici decreti delle norme tecniche contenenti le indicazioni progettuali. Il Legislatore si pose l’obiettivo di salvaguardare la pubblica incolumità introducendo regole che consentissero la vigilanza da parte delle amministrazione comunali e regionali sulle costruzioni, atteso che chiunque intendesse realizzarne di nuove, oppure adeguare o migliorare quelle già esistenti come anche intervenire su strutture in zone a rischio sismico, avrebbe dovuto ottenere l’autorizzazione del competente Servizio Tecnico Regionale. Tuttavia, per la catalogazione sismica si sarebbe continuato ad aggiornare la lista collocandovi le località via via aggredite dai terremoti che si sarebbero verificati da quel momento in avanti. Ma le successive catastrofi del Friuli Venezia Giulia del 1976 e dell’Irpinia e Basilicata del 1980 misero drammaticamente a nudo tale criticità. E così nel 1981 il Governo italiano adottò la proposta, predisposta dal Consiglio Nazionale delle Ricerche ad esito degli studi sismologici e geologici svolti nell’ambito del Progetto Finalizzato Geodinamica, di riclassificazione del territorio nazionale in 3 categorie sismiche, con pericolosità decrescente dalla prima alla terza, con quest’ultima (introdotta con il D.M. 3 giugno 1981 n. 515) che comprendeva solo alcuni comuni di Campania, Puglia e Basilicata interessati dal terremoto del 1980 senza che fosse estesa alle altre zone con il medesimo livello di pericolosità. Ad ogni buon conto, il lavoro del CNR era fondato, come mai prima di allora in Italia, su indagini di tipo probabilistico della sismicità italiana assurgendo a una sorta di primo tentativo di stima del rischio sismico sul territorio nazionale. Resta il fatto che in tante aree a rischio, soprattutto in quelle che avevano subito terremoti distruttivi prima del 1908, si è iniziato a costruire con criteri antisismici solo a partire dai primi anni ‘80. Nel 1984 il 45% del territorio nazionale risultò classificato e vincolato al rispetto di specifiche norme per le costruzioni e solo il 14% delle abitazioni erano costruite a norma. Nel contempo, più della metà del Paese continuò a non essere assoggettato a tale obbligo. Quasi vent’anni dopo, un grave terremoto trasfigurò l’area al confine fra il Molise e la Puglia: il 31 ottobre 2002 morirono 27 bambini e una maestra a seguito del crollo di una scuola elementare in San Giuliano di Puglia sbriciolatasi all’incalzare della scossa. In pratica, l’evento tellurico colpì una zona che non era classificata sismica e che invece sarebbe potuta risultare tale se fosse stato accolto lo studio di riclassificazione del territorio denominato ‘Proposta ’98’ a cura del Servizio Sismico Nazionale, che, sebbene approvato dalla Commissione Grandi Rischi e trasmesso nel 1998 al Ministero dei Lavori Pubblici, non fu mai adottato. Venne così emanata l'Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3274 del 20 marzo 2003 – recante “Primi elementi in materia di criteri generali per la classificazione sismica del territorio nazionale e di normative tecniche per le costruzioni in zona sismica”, che ha sancito l’obbligo di assunzione dell’evento sismico nella progettazione dei nuovi edifici e ha prescritto la verifica sismica delle strutture esistenti di particolare rilevanza, per importanza strategica o per la gravità delle conseguenze legate alla manifestazione di un terremoto (dal punto di vista ambientale e/o dei morti). In particolare, il comma 3 dell’art. 2 ha stabilito <<l’obbligo di procedere a verifica, da effettuarsi a cura dei rispettivi proprietari, sia degli edifici di interesse strategico e delle opere infrastrutturali la cui funzionalità durante gli eventi sismici assume rilievo fondamentale per le finalità di protezione civile, sia degli edifici e delle opere infrastrutturali che possono assumere rilevanza in relazione alle conseguenze di un eventuale collasso>>. Il termine ultimo inizialmente fissato per l’adempimento, ossia entro 5 anni con priorità nelle zone 1 e 2 (art. 3), è poi stato prorogato di anno in anno fino al 31 marzo 2013 in cui è definitivamente scaduto. Tale provvedimento da un lato ha imposto la schedatura della vulnerabilità sismica degli edifici pubblici e dall’altro ha ridefinito la classificazione del territorio riformulando le previgenti ‘Categorie’ in ‘Zone’ e introducendo la “Zona 4” a identificare anche le fasce in precedenza non classificate. Nasce così il paradosso storico per il quale tutto il Paese da allora risulta interessato dal problema sismico (attesi comunque i diversi gradi di pericolosità delle varie aree) ma la gran parte del patrimonio costruito non è stato realizzato con criteri antisismici. Peraltro, l’intervento del 2003 ha previsto l’inserimento della città di Roma in ‘Zona 3’. E la competenza in fatto di individuazione delle zone sismiche venne dall’Ordinanza attribuita alle Regioni, più segnatamente, secondo l’art. 2 comma 1, <<le Regioni provvedono all’individuazione, formazione ed aggiornamento dell’elenco delle zone sismiche. In zona 4 è lasciata facoltà alle singole Regioni di introdurre o meno l’obbligo della progettazione sismica>>.
Saranno poi il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3685 del 21 ottobre 2003 e il Decreto n. 19904 del 21 novembre 2003 a precisare che per edifici e opere strategiche sono da intendersi quelli destinati ad amministrazioni locali, sale operative per gestione emergenze, centri funzionali di protezione civile e strutture individuate nei piani di emergenza, nonché sedi delle ASL, ospedali ed edifici sanitari con pronto soccorso o aree di urgenza, mentre fra gli edifici e le opere rilevanti vanno ricompresi asili nido e scuole (dalle materne alle superiori), strutture ricreative, sportive e culturali, locali di spettacolo e di intrattenimento in genere, edifici aperti al culto, strutture sanitarie e/o socio-assistenziali con ospiti non autosufficienti (ad es., ospizi o orfanotrofi), stabili pubblici destinati alla erogazione di servizi, adibiti al commercio, suscettibili di grande affollamento.
Nel 2004 l’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia diramò una nuova mappa della pericolosità sismica (identificando quest’ultima come lo scuotimento del suolo atteso in un sito a causa di un terremoto), basata sulla potenza sprigionata dal probabile terremoto. L’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3519 del 28 aprile 2006 ha reso tale mappa uno strumento ufficiale di riferimento per il territorio nazionale. Da dirsi è comunque che mentre alcune Regioni hanno preso a utilizzare le quattro zone proposte, altre han fatto ricorso a modalità diverse, adottando tre zone e talora introducendo alcune sottozone per un più efficace adeguamento alle caratteristiche di sismicità. Ad ogni modo, a ogni zona o sottozona è stato attribuito un valore di pericolosità di base che tuttavia non incide sulla progettazione di case e strutture.
Nella mappa dell’INGV i colori (dal grigio fino al viola e blu scuro delle zone più pericolose) indicano i differenti valori di accelerazione del terreno che hanno una probabilità del 10% di essere superati in 50 anni. Ed emerge che gli scuotimenti più forti sono evidenziati in Calabria, Sicilia sud-orientale, Friuli-Venezia Giulia e lungo tutto l’Appennino centro-meridionale. Valori medi sono riferiti a Penisola Salentina, costa tirrenica tra Toscana e Lazio, Liguria, buona parte della Pianura Padana e all’intero Arco Alpino, mentre la Sardegna risulta la regione meno pericolosa con moderati valori di scuotimento atteso. E’ particolare notare che già dal documento del 2006 si ricavava che i Comuni di Amatrice e di Accumoli insistono su aree classificate a livello 1 con probabilità di terremoti di massima magnitudo, mentre quello di Arquata del Tronto è classificabile al più basso livello 2.
Nel 2008 con un Decreto del Ministro del Ministro delle Infrastrutture di concerto con il Ministro dell'Interno e con il Capo della Protezione Civile (D.M. 14 gennaio 2008, entrato in vigore il 5 marzo 2008) sono state definite le Norme Tecniche per le Costruzioni – NTC2008, tutt’oggi riferimento legislativo in fatto di principi per il calcolo, il progetto, l’esecuzione e il collaudo delle costruzioni, che hanno reso la verifica sismica obbligatoria su tutto il territorio nazionale, rimuovendo la facoltà regionale di disporre sull’obbligo di progettazione antisismica nella ‘zona 4’ e rendendo così necessaria, dal 1° luglio 2009, la redazione di progetti che tengano conto dell’effetto sismico su tutti gli edifici nazionali. Si transita dunque da una mappa di pericolosità sismica utilizzabile dalle Regioni per aggiornare l’iscrizione di una località in una delle 4 zone sismiche ad una dettagliata descrizione per ciascun territorio dello scuotimento atteso attraverso moderni parametri tecnici.
Nel 2009 la Legge n. 77 del 24 giugno di conversione del D.L. n. 39 del 28 aprile 2009 concernente gli “interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici nella regione Abruzzo” ha previsto, all’art. 11, il finanziamento di misure per la prevenzione del rischio sismico su tutto il territorio nazionale grazie ad un fondo con risorse statali – istituito nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze – pari ad un totale di circa 965 milioni di euro per complessivi 7 anni, dal 2010 al 2016. L’anno successivo, con l'Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3843 del 19 gennaio, è stata istituita una Commissione di esperti del rischio sismico che ha definito criteri generali e obiettivi di un’efficace azione di prevenzione da realizzare con i fondi messi a disposizione dall’art. 11 e da attuare soprattutto attraverso studi di micro-zonazione sismica dei centri abitati che consente di individuare e caratterizzare le zone stabili, quelle stabili suscettibili di amplificazione locale delle onde telluriche e le zone soggette a instabilità quali frane, rotture della superficie per faglie e liquefazioni dinamiche del terreno.
Ebbene, nonostante il significativo avanzamento legislativo degli ultimi 15 anni, è fondato ritenere che la codificazione antisismica italiana si attesti al livello di un sistema normativo emergenziale e alquanto lacunoso.
In via di premessa giova evidenziare che la cifra complessiva dello stanziamento che all’indomani del sisma di L’Aquila il Governo ha disposto per la prevenzione sismica nazionale, nonostante possa apparire prima facie rilevante, “rappresenta solo una minima percentuale, forse inferiore all’1%, del fabbisogno necessario per il completo adeguamento sismico di tutte le costruzioni pubbliche e private e delle opere infrastrutturali strategiche”: è quanto ufficialmente afferma il Dipartimento della Protezione Civile sul proprio portale web nell’area ‘Attività sui rischi’. La trance per il 2016 dei finanziamenti nazionali ammonta a soli 44 milioni di euro per quasi 4mila Comuni. In pratica, appena 11mila euro a Comune. Una somma deludente e oltremodo insufficiente, di cui solo una piccola parte viene destinata agli interventi dei privati. Emblematica la notizia diramata a fine agosto scorso in cui si riferiva che nel 2013 la Regione Lazio, posti 2,7 milioni di euro da assegnare proprio ai privati, ha accettato solo 191 domande a fronte delle 1342 presentate, di cui 45 ad Amatrice (dove gli interventi furono 11 per 124mila euro) e 24 ad Accumoli (7 interventi per 86mila euro). Da considerare in generale che le case dei non residenti vennero escluse dai criteri fissati dalla Regione e, in particolare, che per un ritardo di un dirigente del loro Comune non poche domande di cittadini di Amatrice risultarono inoltrate fuori dei termini richiesti. Una circostanza che passerebbe inosservata se non riguardasse le località simbolo dell’ultimo grave terremoto.
Ciò detto, il Paese vive ancora nell’attesa delle Nuove Norme Tecniche per le Costruzioni, ferme da ben sei anni e che forse – come, purtroppo, consolidata prassi del Legislatore nazionale – vedranno finalmente uno sblocco sull’onda emotiva della calamità avvenuta nel Centro-Italia. L’attuale testo tecnico, che rappresenta il punto di riferimento di tutti i professionisti che devono realizzare edifici, è in vigore dal 2009 risultando, a distanza di tempo, non aggiornato e di fatto inadeguato. Aspetto oltremodo ridondante se si considera che da illo die si sono avute le calamità dell’Emilia e di Amatrice e che, di contro, la noma di riferimento ne prevede la revisione biennale. E pensare che già nel marzo 2010 il Consiglio superiore del Lavori pubblici aveva avviato il processo di aggiornamento, ma il testo definitivo si è arenato fino al novembre 2014: l’iter normativo ne richiede, per l’approvazione finale, successivi passaggi con il Ministero dell’Interno, la Protezione civile e il Ministero delle Infrastrutture e tale circostanza negli effetti ha ulteriormente allontanato il giorno della relativa pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Particolare da notare è che anche l’emanazione delle NTC-2008 fu sofferta. Al tempo in cui furono proposte ricorrevano due condizioni: da un lato l’esigenza di innovare un sistema regolatorio abbastanza datato poiché risalente al 1996, dall’altro l’assenza di situazioni di emergenza. Sta di fatto che il testo definitivo entrò nel tritacarne dei rinvii. Il Decreto Milleproroghe 2008 ne differì l’entrata in vigore al giugno 2010 e in tanti cominciarono a presagire ulteriori proroghe. Ma nell’aprile 2009 l’Italia fu sconvolta dal terribile e luttuoso terremoto di L’Aquila e, all’opposto dell’indirizzo sin lì intrapreso dal Legislatore, fu anticipata l’entrata in vigore del provvedimento a luglio 2009.
Lascia attoniti che sia crollata la scuola di Amatrice, nonostante nel 2012 si siano conclusi i lavori costati 700 mila euro per l’adeguamento antisismico della struttura. Più ricercatori ed esperti sostengono che, al netto del dolo umano che la Magistratura è chiamata a rilevare e sanzionare, tre sono le motivazioni plausibili che provocano il crollo di un edificio antisismico: un’errata progettazione, un’errata realizzazione o un evento sismico che superi i livelli previsti per quella zona in fase di progettazione. Ma tale vicenda impone una riflessione più ampia. Vien da chiedersi: e se l’attuale assetto normativo di settore fosse una silente concausa della vulnerabilità sismica dell’edificato italiano?
Alcuni studi (tra cui il Rapporto Ance-Cresme su “Lo stato del territorio italiano – Rischio sismico e edifici industriali”) hanno rivelato che in Italia le aree a elevato rischio sono pari al 44% della superficie italiana (131mila kmq), riguardano il 36% dei Comuni (2.893 unità), vi sono stanziate 21,8 milioni di persone (36% della popolazione, per un totale di 8,6 milioni di famiglie) e vi si trovano circa 5,5 milioni di edifici tra residenziali e non residenziali. Peraltro, sono 11 le regioni che hanno porzioni di territorio nella zona sismica 1, la più pericolosa. Triste primato per la Campania che conta 5,3 milioni di persone che vivono in 489 Comuni a rischio sismico elevato, seguita da Sicilia e Calabria. E in siffatto scenario il rischio sismico è ampliato dalla rilevante vulnerabilità del patrimonio edilizio italiano che è stato costruito per oltre il 60% prima dell'entrata in vigore delle prime disposizioni antisismiche che risalgono al 1974. In particolare, le abitazioni residenziali della zona 1 ammontano a 1,9 milioni, oltre la metà delle quali costruite prima del 1971. Sarebbero poi oltre 2,5 milioni gli edifici ad uso residenziale in pessimo o mediocre stato di conservazione, dei quali oltre 2,1 milioni risultano costruiti prima dell'avvento della normativa sismica di riferimento. Quest’ultima è entrata in vigore nel 1974 (con la Legge n. 64) e quindi le abitazioni realizzate in epoca precedente non sono state costruite secondo le prescrizioni tecniche solo allora introdotte. Disposizioni peraltro semplici, dal divieto di sovrappesantire le strutture con tetti pesanti ma utilizzando solai in legno agli orizzontamenti piani legati con dei cordoli in calcestruzzo, alle ricuciture delle murature attraverso tecniche di cuci e scuci, dalle iniezioni di cemento alle reti elettrosaldate. Norme che si applicano nei casi di nuove costruzioni, di ristrutturazione del patrimonio edilizio esistente che ne muti la destinazione d’uso, di interventi che impongano di rivedere la stabilità dell’opera.
Ora, secondo il Consiglio Nazionale degli Ingegneri sarebbero 15 milioni le case che sono state realizzate in completa assenza di una qualsivoglia legge antisismica. E di certo un’abitazione costruita 40 o 50 anni fa non risponde alle esigenze attuali. Basti pensare alla dotazione impiantistica odierna e a quella di messo secolo prima. Tuttavia, quale incongruenza della codificazione vigente, non esiste alcun obbligo normativo che imponga la conformità di queste costruzioni agli standard previsti dalla sistema legislativo corrente. Né da adeguare, né da migliorare. Non solo, per quanto il Legislatore abbia previsto l'obbligo della schedatura della vulnerabilità degli edifici, tale onere riguarda solo quelli strategici quali caserme, tribunali e ospedali, mentre per le abitazioni private è lasciato alla discrezione del proprietario. Inoltre, la normativa ha sì imposto l’attività di verifica ma gli interventi che si renderebbero necessari a seguito di schedatura non sono stati resi obbligatori. Sia chiaro, dunque: gli Enti locali sono obbligati solo a studiare la vulnerabilità delle strutture di loro proprietà, vagliandone lo stato di sicurezza. Le quali poi, di fatto, possono restare come sono: sicure o no. Verosimilmente il Legislatore ha assunto la puntuale conoscenza del territorio come cardine dell’azione di prevenzione sismica. Ma si tratta di un’impostazione superata, atteso che peraltro non ha mai visto la luce, dopo la mappatura dei territori più pericolosi, quella dei fabbricati più vulnerabili (quantomeno quelli pubblici). Quante scuole, prefetture e ospedali rischiano di crollare in Italia? Non è dato saperlo.
La normativa poi definisce varie categorie di intervento, dall’adeguamento sismico (con cui si tende a realizzare i livelli di sicurezza previsti dalle norme tecniche) al miglioramento sismico (con cui si tende ad elevare la sicurezza strutturale esistente ma senza il necessario raggiungimento dei livelli richiesti dalla norma) ai c.d. interventi locali (che interessano elementi isolati). Ora, in Italia buona parte delle strutture di valore storico, artistico e architettonico (quasi tutte ultra-datate) sono state sottoposte ad azioni di miglioramento (più semplici e meno onerose di quelle di adeguamento) che sì hanno aumentato la sicurezza delle costruzioni ma mai elevandola ai parametri invece previsti per i nuovi edifici. Si tratta di un espediente normativo che ha consentito di intervenire su immobili storici senza provocarne lo snaturamento e al quale abbiamo forse pagato un dazio troppo alto. E così è capitato o può accadere che una qualsiasi Basilica ultracentenaria vincolata dai Beni culturali, non potendo essere assoggettata per la natura assai caratterizzata della sua struttura a pervasive azioni di adeguamento alla normativa antisismica, viene migliorata. Basta questo a renderla in grado di sostenere sismi come gli ultimi che hanno segnato il nostro Paese? La risposta è desumibile dalla Storia.
Altresì, nelle previsioni della normativa tecnica la fase preliminare della realizzazione di un’opera è legata al c.d. “spettro di progetto”, l’insieme di caratteristiche che potrebbe avere un terremoto qualora si verificasse nella determinata zona in cui si intenda costruire, dalla frequenza (ossia la ripetizione delle scosse in un dato intervallo di tempo) all’ampiezza massima dell’accelerazione (il cui picco è 0,35 g nelle zone maggiormente sismiche). Ma cosa accadde nella fascia dell’Emilia-Romagna colpita dal terremoto del maggio 2012, costato la vita a decine di persone? Si verificò che la frequenza del terremoto risultò molto più elevata rispetto a quella prevista dallo spettro di progetto determinando un danno incalcolabile. L’intera area emiliana teatro dei terremoti di maggio era classificata in classe 3, vale a dire, secondo la legenda INGV, come zona a pericolosità sismica bassa che può essere soggetta a scuotimenti modesti. I Comuni di Mirandola, Finale Emilia, Novi di Modena, Medolla, Cavezzo e San Felice sul Panaro (località tristemente note al grande pubblico) rientravano tutti in classe 3.