Investire nelle uniformità – La regione mediterranea, pur presentando al proprio interno caratteristiche dissimili per lingua e religione, nonché accentuate disparità economiche e sociali – si consideri le differenze di Pil o di crescita demografica tra le rive nord e sud del Mediterraneo – tuttavia accoglie indubbi fattori di omogeneità. Tale affascinante “mosaico etnico” riproduce, infatti, un’unità morfologica, geografica e storica ben definita, con analogie climatiche, attinenze ambientali, strette relazioni culturali e forti legami commerciali. Il sistema agroalimentare, in particolare, oltre ad incarnare una funzione tuttora centrale nei contesti lavorativi ed economici in tutti i Paesi dell’area, ha assunto anche un ruolo identitario comune e soprattutto di collante sociale. Le sue molteplici articolazioni – dalla produzione per l’autoconsumo allo sviluppo rurale, dai processi di industrializzazione e di internazionalizzazione ai servizi ambientali, dalle funzioni culturali alle spinte all’innovazione – gli conferiscono il più naturale terreno integrativo sotto il segno dell’affinità e della cooperazione tra Stati, tra territori, tra sistemi. Storicamente, la natura fisica dei luoghi ha determinato radicate vocazioni e stili di vita che ritroviamo, analoghi, nelle varie sponde del “Mare Nostrum”. Si pensi, ad esempio, all’attività della pesca, che oltre a rivestire una funzione fondamentale per l’economia e l’alimentazione di tutte le popolazioni rivierasche, è contraddistinta da un patrimonio culturale legato al lavoro, alle tradizioni gastronomiche, alla struttura delle barche, ad ancestrali saperi sull’astronomia e sulla meteorologia. La pesca mediterranea è caratterizzata da una propria specificità comune: è artigianale per circa l’80 per cento e multispecifica, cioè rivolta alla cattura di un numero elevato di specie e per questo maggiormente selettiva. Peculiarità che la differenzia, ad esempio, dal Nord Europa, con attività prevalentemente industriali e monospecifiche, quindi più portatrici di depauperamento, come nel caso del merluzzo nel Mare del Nord. Nel Mediterraneo – dove vivono circa settemila specie di pesci, molluschi e crostacei – si verifica l’1,7 per cento delle catture mondiali, pari, però, al 4 per cento del valore complessivo proprio per il grande pregio delle specie. L’Italia, per valore delle catture, è il primo Paese “ittico” nel Mediterraneo con circa 260mila tonnellate annue per un valore della produzione di quasi un miliardo di euro. Significativo anche il ruolo della Tunisia con circa 100mila tonnellate, per un totale di 350 milioni di dinari pari all'1,1 per cento del prodotto nazionale lordo del Paese. Il pescato, nell’export tunisino, ha una quota del 17 per cento, dietro al solo olio d’oliva. Altro fattore di omogeneità tra luoghi diversi è la millenaria pastorizia, presente tanto nel Maghreb quanto nei sentieri della Mesta di Castiglia, nei tratturi del Mezzogiorno d’Italia o nelle montagne della Sardegna, dove il fenomeno interessa ancora 20mila famiglie. Tra antiche risorse, radicati disciplinari giuridici, opportunità emergenti e tensioni sociali, gli itinerari di greggi, uomini e merci, con il proprio mondo fatto di contratti, investimenti, mercati e prodotti pastorali (latte, formaggi, cuoi e lane), trova oggi crescenti ostacoli nella progressiva messa a coltura delle aree o nella cementificazione di sempre più vasti spazi. Non mancano, però, in questo grande affresco, spinte alla progettualità, alla sperimentazione, all’innovazione, ad agganciare lo sviluppo per non disperdere un patrimonio che ha contrassegnato per millenni la vita degli abitanti del Mediterraneo. Antiche uniformità che ritroviamo anche nel patrimonio arboreo, con la posizione prevalente rivestita dall’ulivo, che vede Tunisia e Italia sul podio per produzione mondiale insieme alla Spagna. Affinità che si ripresenta nella coltivazione della vite, degli agrumi, di alcune colture orticole, in primo luogo pomodori e patate, e frutticole. O ancora nei cereali, benché l’irregolarità delle precipitazioni determini quantità di prodotto insufficienti ai consumi nazionali. Sono tutte produzioni che rafforzano un’identità “unica” del Mediterraneo e, grazie alla crescente industrializzazione, contribuiscono a sostenere le economie dei singoli Stati per mezzo di un crescente export.
Criticità e potenzialità latenti – Tuttavia, a queste condizioni favorevoli, fa da contraltare un quadro di autolesionismo e di potenzialità inespresse testimoniato da diversi fattori. A cominciare dalle reiterate responsabilità della politica, che per decenni ha inseguito il miraggio dell’industrializzazione impattante o delle grandi opere, tralasciando l’ancestrale ruolo armonico svolto dall’agricoltura; in tale contesto – a livello europeo – sono state privilegiate le relazioni ad Est, verso gli ex Stati sovietici, ma anche verso l’Asia, soprattutto in ottica di partenariati e di delocalizzazione, anziché guardare a Sud. Parimenti inefficace sta risultando l’impegno internazionale per affrontare i marcati squilibri tra la sponda nord e quella sud del Mediterraneo, causa primaria dei grandi flussi migratori che generano problemi di integrazione nei Paesi della sponda settentrionale. Così come risulta suicida la sfrenata concorrenza tra le diverse anime dell’imprenditorialità agricola del Mediterraneo su analoghe produzioni, anziché fare sistema e rafforzare la competitività in ottica mondiale. Nonostante le sfide collegate alla globalizzazione impongano soluzioni di cooperazione economica – che aiuta anche il concretizzarsi della cooperazione politica – tanto migliori in un’ottica di sostenibilità ambientale, il mercato mediterraneo continua ad essere caratterizzato da un clima di reciproca diffidenza e di diffuso scetticismo alimentato, da un lato, da accuse all’Occidentale di ingerenza e di interferenza – se non di vero e proprio “neocolonialismo commerciale” – con la determinazione di effetti interni destabilizzanti in molti Paesi della sponda meridionale e, dall’altro, in crescenti – e a volte strumentali – paure per l’incremento del fondamentalismo, del terrorismo e della criminalità (talvolta come reazioni di rigetto alla penetrazione dello stile di vita occidentale). In tale contesto molti produttori continuano a sentirsi costantemente minacciati, alimentando un clima generale di conflittualità, di sospetto, di sfiducia. Questa situazione si riflette negativamente soprattutto sull’agricoltura, che non riesce a liberare tutte le sue energie proprio in una fase in cui la mondializzazione impone nuove e complesse sfide. Il risultato più evidente di tali criticità – sommate ai forti squilibri demografici ed ai conflitti in corso – è il diffuso abbandono delle terre e la carenza del ricambio generazionale a fronte della mancanza di politiche in grado di stimolare l’interesse e 4 l’entusiasmo dei giovani per investire nell’agricoltura, nella pesca, nello sviluppo rurale. Il deludente quadro delle potenzialità inespresse è figlio anche degli esiti non esaltanti nella costruzione di partenariati euromediterranei, nonostante molti Paesi – soprattutto a partire dagli anni Ottanta – abbiano compiuto significativi passi in avanti nella creazione di intese e nella negoziazione di accordi, volti prevalentemente a realizzare della regione mediterranea uno spazio comune di pace, di stabilità e di prosperità e a determinare uno sviluppo economico “sostenibile ed equilibrato”: è il caso dei Consigli europei di Lisbona del 1992 e di Corfù del 1994 e soprattutto della Dichiarazione di Barcellona del 1995, laddove l’Unione europea ha manifestato concretamente l’intenzione di intraprendere relazioni più stabili e durature con i Paesi del bacino mediterraneo. Percorsi indubbiamente non facili, resi più gravosi dalle complessità del quadro politico nordafricano e dalla costante presenza del conflitto israelo-palestinese. Tuttavia queste esperienze hanno indicato chiaramente quali siano gli strumenti più efficaci per costruire un futuro di benessere, a cui va associata la buona volontà nel compiere le scelte più adeguate alle esigenze di cittadini e consumatori.
Cooperare per crescere – Sul piano generale, la strada della crescita non può prescindere dal dialogo politico e dall’abbandono della lunga stagione degli accordi di natura bilaterale rispetto ad una cooperazione transfrontaliera multilaterale, strutturata non soltanto a livello economico e finanziario, ma anche in ambito scientifico-tecnologico, sociale e culturale. E’ questa una condizione indispensabile per determinare quel clima generale di conciliazione e di pacificazione che sia in grado di alimentare processi virtuosi. Tra questi, di primaria importanza, è la promozione di flussi disciplinati ed equilibrati di mobilità di capitale umano che determinino sia scambi di esperienze per lo sviluppo dell'agricoltura sia una fruttifera integrazione professionale e socio-culturale sia la creazione di un’imprenditorialità di ritorno necessaria allo sviluppo delle regioni più bisognose. Se l’attuale piaga dei trasferimenti forzati clandestini dal Nord Africa, spesso gestiti dalla criminalità organizzata, finisce per alimentare in Italia le occupazioni irregolari, 5 lo sfruttamento lavorativo fino a forme di vera e propria “nuova schiavitù” (nelle campagne italiane un lavoratore su dieci è extracomunitario ed i tassi di irregolarità hanno ormai oltrepassato un quarto di tutta l’occupazione in agricoltura), soltanto adeguate politiche di cooperazione ed interventi istituzionali e tracciabili di somministrazione di competenze, di formazione linguistica e normativa, di informazione sui diritti/doveri e di inserimento strutturato nelle attività agricole possono costruire qualificati percorsi di crescita professionale capaci di elevare lo status non soltanto di ogni singolo lavoratore, ma di un intero sistema. L’agricoltura del futuro necessita di personale sempre più qualificato, “mobile” e integrato, frutto anche di iniziative di cooperazione transfrontaliera nel settore del lavoro e della formazione nell’ottica dell’apprendimento reciproco, di dinamiche di programmazione tra istituzioni ed amministrazioni e della cooperazione decentrata. La stretta collaborazione tra i diversi soggetti coinvolti – sul piano istituzionale, datoriale e lavorativo – finisce per soddisfare con più facilità non solo l’esigenza di manodopera specializzata da parte delle aziende, valorizzando a loro volta percorsi di ulteriore crescita delle abilità, delle conoscenze e delle competenze per il lavoratore, ma anche una migliore qualità esistenziale e professionale del lavoratore straniero, grazie alla promozione di percorsi di stabilizzazione e quindi ad una più efficace integrazione socio-culturale. L’iniziativa Aforil 2 va proprio in questa direzione, promuovendo interscambi professionali sotto il segno della cultura della cooperazione, potenziando le risorse umane territoriali, valorizzando l’offerta produttiva dei territori rurali e il sistema delle relazioni umane e commerciali. Il contesto odierno è ben rappresentativo, nei fatti, di questi valori di solidarietà e di inclusione. Pula, città di mare e di aperture, nelle proprie radici e nello straordinario sito archeologico fenicio-punico e romano di Nora testimonia un’innata propensione all’accoglienza, diventata una propria peculiarità. Ciò ha trovato conferma negli anni Cinquanta e Sessanta, quando giunsero decine di famiglie espulse dal Nord Africa, a cui vennero affidati poderi, trovando piena integrazione in questo territorio. O negli anni Novanta, con il canale umanitario con la Bosnia, che ha permesso a numerosi profughi d’insediarsi nella borgata Santa Margherita. L’agricoltura, prima attraverso la coltivazione della vite e oggi dei pomodorini, ha garantito un riscatto lavorativo a questi cittadini stranieri, mentre valide politiche scolastiche hanno assicurato alle nuove generazioni una rapida ed efficace inclusione nel tessuto sociale. Tutte le numerose realtà etniche e culturali convivono da sempre pacificamente a Pula. 6 Realtà come quella di Pula e di altri territori sensibili a questi temi saranno privilegiate nell’affrontare le sfide più strategiche per l’immediato futuro. Sfide che riguardano non più singole aziende o limitati territori, bensì veri e propri sistemi, anche finanziari, statistici e infrastrutturali, che si muovono nel quadro della mondializzazione. La collaborazione transnazionale richiede, quale premessa, la promozione della comprensione tra le culture e si concretizza nei settori sociale, culturale ed umano attraverso, soprattutto, lo sviluppo delle risorse umane. Si tratta di processi ormai irrefrenabili, che vanno gestiti e non subiti. Proprio in tale quadro di crescente competizione, lo sviluppo dell’intera area mediterranea non può prescindere dalla modernizzazione dell’agricoltura, che passa per la cooperazione economica e per la serie di azioni concertate fin qui descritte e che non può fare a meno di interloquire con i settori più strategici per il nostro futuro, dall’energia all’acqua, dalla pianificazione alle costruzioni, dai trasporti alle telecomunicazioni: l’obiettivo primario generale è la necessità di produrre sempre più alimenti con sempre meno risorse e di assicurare una prosperità condivisa. In gioco c’è il futuro dell’intero bacino mediterraneo nel nuovo scenario mondiale, insieme al ruolo politico di un’Unione europea che accusa, soprattutto al suo interno, le più gravi criticità. I nuovi orizzonti richiedono impegni concreti nel sostegno alle imprese e nel garantire flussi di investimenti necessari alla convergenza economica tra diverse aree geografiche. Diventano strategiche le funzioni dell’assistenza tecnica e della formazione, la maggiore attenzione al peso dei distributori alimentari nelle filiere e all’incremento delle quote produttive e commerciali innescanti anche processi di export. Ma anche i traguardi della sostenibilità ambientale e della riduzione della dipendenza in campo alimentare, l’armonizzazione dei metodi statistici e soprattutto l’impegno in ricerca, innovazione, sviluppo scientifico, fattori che, interessando sempre più le infrastrutture e le biotecnologie, determinano rapidi miglioramenti nei metodi, nei sistemi e nei processi di produzione per rispondere alla crescente domanda quantitativa e qualitativa agroalimentare. Più nel dettaglio, partendo dalle eccellenze offerte dal comparto agricolo e agroalimentare mediterraneo, esaltandone in particolare le filiere controllate e le produzioni di pregio (si pensi ai prodotti Dop o Igp, di cui l’Italia detiene il primato in Europa), la cultura della cooperazione deve concorrere a far oltrepassare gli egoismi e le egemonie localiste per ragionare, invece, in una prospettiva di capacità contrattuale di sistema, operando per migliorare il “savoir faire” in termini di attitudini, produzioni certificate e servizi, per ottimizzare lo standard qualitativo delle coltivazioni, per promuovere la dieta mediterranea, per allungare la stagionalità dei prodotti, per promuovere la crescita nelle aree rurali, per adottare misure adeguate ai cambiamenti climatici, per combattere contro gli sprechi, per garantire nuovi impulsi all’innovazione e alla ricerca.
Va ricordato, come monito, che il Trattato sull’Unione europea, al titolo XVII, articolo 130 U, punto primo, afferma che “la politica della comunità nel settore della cooperazione allo sviluppo, che integra quelle svolte dagli Stati membri, favorisce lo sviluppo economico e sociale sostenibile dei Paesi in via di sviluppo, in particolare di quelli svantaggiati; l’inserimento armonioso e progressivo dei Paesi in via di sviluppo nell’economia mondiale; la lotta contro la povertà nei Paesi in via di sviluppo”. E’ necessario ripartire da qui.
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