Circa il 14% di tutto il cibo prodotto al mondo diventa immangiabile prima ancora di raggiungere gli scaffali di negozi e supermercati (food loss). L'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (FAO) ha evidenziato questi sconfortanti numeri, nello State of Food and Agriculture 2019, pubblicato due giorni fa.
Oggi, in occasione della Giornata Mondiale dell'Alimentazione (World Food Day, queste stime impongono una riflessione sul problema della sicurezza alimentare e sulle misure necessarie per raggiungere l'impegno fissato nell'Agenda 2030 nonché il tema della campagna di quest'anno. Come ricorda la FAO, Fame Zero non significa soltanto combattere la fame, ma nutrire, nel senso più profondo, con una dieta sana e sostenibile per l'ambiente, attenta alla salute dei consumatori e rispettosa della biodiversità delle specie.
In base al rapporto, le precedenti stime sulla quantità di cibo sprecato formulate nel 2011 – secondo le quali andrebbe perduto circa un terzo di tutto il cibo prodotto – sono grezze. Per questo il problema enorme dello spreco di cibo è stato, con un approccio più moderno e funzionale, correttamente suddiviso in due macro aree: quella degli alimenti persi prima della distribuzione (food loss), e quella dello spreco che avviene in fase di distribuzione e nelle nostre case (food waste).
Il nuovo documento della FAO si concentra sul food loss, e prova a individuare i punti critici in cui avvengono le perdite maggiori. A deperire più facilmente frutta e verdura, rispetto a cereali e legumi. Nei Paesi a basso reddito le perdite sono attribuibili soprattutto alla carenza di infrastrutture adeguate: grandi quantità di cibo sono perse per la poca disponibilità o il cattivo funzionamento di magazzini refrigerati. Nei Paesi industrializzati, le perdite avvengono invece soprattutto per problemi tecnici in fase di stoccaggio, per la cattiva regolazione di temperatura e umidità o ancora per l'eccesso di prodotti stoccati.
Se le criticità nella conservazione dei cibi comportano le perdite maggiori, sia per quantità sia in termini economici, i problemi registrati "sul campo" e in fase di raccolta (tempistiche sbagliate, cattive condizioni climatiche, inesperienza nelle pratiche agricole, esigenze imposte dal mercato) sono le cause di deterioramento più spesso citate, per tutti i tipi di prodotti.
I tentativi di ridurre queste perdite dovranno tenere conto del fatto che le misure per migliorare questa prima fase di "vita utile" del cibo richiedono importanti investimenti economici, che i produttori si accolleranno soltanto se inferiori ai benefici (e che sopporteranno più facilmente se aiutati, per esempio, da forme di micro credito). Questi benefici sono tutt'altro che scontati e, come sottolinea il rapporto, variano in base al punto della catena di produzione che interessano.
Ridurre invece perdite e sprechi di cibo in fasi più avanzate della catena produttiva migliora la sicurezza alimentare dei consumatori, ma ha benefici più contenuti sui produttori originari (che anzi potrebbero essere colpiti negativamente dal calo della domanda).
Il discorso è diverso se si considera l'impatto ambientale. I gas serra e il consumo di risorse associati alla produzione di cibo si accumulano mano a mano che si avanza verso il consumatore: tagliare gli sprechi ai punti più lontani della catena garantisce quindi i maggiori benefici per il Pianeta.