Campi allagati, animali affogati o ammalati, magazzini invasi dal fango, attrezzature rese inservibili, mangimi da buttare, serre distrutte dal vento. Le ormai inflazionate “bombe d’acqua” stanno mandando in rovina frutteti e vigneti tardivi in tutta Italia. E ormai non c’è più differenza tra le stagioni più o meno responsabili di tutto ciò. E’ il desolante quadro che emerge all’indomani delle ondate di maltempo che colpiscono con sempre maggiore assiduità e violenza il nostro Paese. Stime relative al 2014 quantizzano danni tra uno e tre miliardi di euro. Il calo per la produzione di olio d’oliva potrebbe essere del 30-35 per cento, cioè di 300mila tonnellate. Trend negativo che interessa anche la Spagna: qui si parla del 50 per cento in meno, anche se il Paese resterebbe leader mondiale per quantità, davanti proprio all’Italia, insidiata dalla Grecia. Segno meno per l’olio d’oliva sull’intero Pianeta, che registrerebbe un crollo del 19 per cento a livello globale per circa 2,56 milioni di tonnellate, secondo i dati del Consiglio oleicolo internazionale (Coi).
Cattive notizie anche per il vino “made in Italy” con crolli produttivi tra il 10 e il 15 per cento: la produzione complessiva potrebbe scendere fino a 41 milioni di ettolitri, la più scarsa dal 1950 e determinerebbe il sorpasso della Francia all’Italia come Paese leader mondiale. Per il grano duro destinato alla pasta cali fino al 4 per cento. Poca cosa rispetto al dato mondiale: stime dell’International Grains Council parlano di un calo globale del 15 per cento, con una produzione mondiale che dovrebbe attestarsi sui 34 milioni di tonnellate. Male soprattutto il Canada, meno 27 per cento, principale fornitore dell’Italia per la pasta e l’Unione europea, meno 10 per cento. Tutto ciò, ovviamente, avrà ricadute pesanti sui prezzi alla produzione e al dettaglio, dal momento – ad esempio – che ogni italiano consuma mediamente 26 chili di pasta all'anno, tre volte il consumo di uno statunitense, ma anche 38 litri a persona all'anno di vino e 12 litri di olio. Se il raccolto nazionale di pomodoro da conserva rimane stabile rispetto agli ultimi cinque anni, grazie però all’aumento delle superfici coltivate, va male l’ortofrutta. Il dramma maggiore riguarda le castagne: siamo ad appena un terzo della produzione di dieci anni fa. Tale situazione potrebbe influire anche sulla buona salute, visto che stiamo parlando dei prodotti base della dieta mediterranea. Ma davvero tutto questo è il prezzo che stiamo pagando alle intemperie del tempo?
Pur nella rituale contrapposizione tra “normalizzatori” e allarmisti su presunti o effettivi cambiamenti climatici, di certo gli odierni disastri naturali rivelano con sempre maggiore e preoccupante frequenza le interdipendenze tra processi naturali paradossalmente – nonostante il progresso – sempre meno controllabili, una pianificazione urbanistica sempre più latitante ed un uso irrazionale del territorio. La conseguenza complessiva sono i conflitti tra sviluppo economico ed ambiente naturale. Al di là del sempre acceso dibattito sull’involuzione del clima – ma sono ormai tante le ricerche scientifiche che attestano la realtà dei cambiamenti climatici, collegati in particolare all’incremento di episodi piovosi intensi e di breve durata – sul banco degli imputati c’è soprattutto il consumo di suolo naturale. E’ chiaro che l’incremento delle strutture abitative nel nostro Paese è andato di pari passo con il costante aumento di numero dei residenti, dai 22 milioni di fine Ottocento agli attuali 60 milioni. Ma il boom economico degli anni Cinquanta ha determinato una cementificazione senza freni anche per seconde e terze case, per stanziamenti industriali, per insediamenti commerciali e per il sistema urbano in generale. Con effetti sempre più impattanti. Soltanto nel periodo 1956–2010, il Paese ha visto quasi triplicare la superficie urbanizzata, dagli 8.600 chilometri quadrati del 1956 ai 20.700 del 2010. L’ipercrescita, spesso irrazionale, ha determinato principalmente lo sprawl urbano, o “città diffusa”, ad esempio con gli hinterland delle grandi città. O lungo la riviera Adriatica. O ancora in ampi territori del Veneto con le industrie a gestione familiare. Parallelamente lo sviluppo industriale e la crescita del comparto pubblico hanno causato l’abbandono scellerato di zone montane e campagne (un vero e proprio “smantellamento” in molte zone, da Nord a Sud) e l’incremento della vulnerabilità dei territori, ampliando le aree soggette ad eventi estremi, come frane ed alluvioni. La crisi sta aggiungendo del suo: sempre meno manutenzione per scarsità di risorse e la mancata pulizia dei fiumi e dei torrenti si ripresentano puntualmente come problemi aggiuntivi.
Cronache drammatiche
Le tragiche e continue vicende delle ultime settimane dimostrano come il dissesto idrogeologico si sia esteso a macchia di leopardo in tutta Italia. Misto alle connesse e immancabili vicende su cui è costretta ad indagare la magistratura. Emblematico il caso della provincia di Massa Carrara, dove la mattina del 5 novembre 2014 sono esondati i torrenti Carrione e Parmignola, provocando ingenti danni soprattutto ad Avenza e a Marina di Carrara. Il primo paradosso – e non è un caso unico – è che tali tragedie costituiscano una replica esatta di quanto successo in precedenza. Nel caso della provincia di Carrara esattamente due anni prima (notte tra il 27 e il 28 novembre 2012). Ed ancora, la presenza di immancabili e “certificate” avvisaglie che “gridano vendetta” in tutte le tragedie: nel caso di Carrara, l’industriale del marmo Giorgio Vanelo ha rese note le numerose denunce trasmesse alla Provincia e al Comune di Carrara, segnalando proprio il pericolo di quell’argine dal quale filtrava acqua. E non è stato il solo: ci sarebbero le segnalazioni, rimaste inascoltate, di ben undici aziende del marmo. C’è di più: i materiali usati negli ultimi anni per innalzare l’argine del fiume sarebbero difettosi o non in grado di sopportare la prima piena imponente. Esattamente come due anni fa. Ci sono indizi che per risparmiare sui costi si sia utilizzato materiale non conforme. Addirittura qualcuno sospetta che nelle miscele sia stato usato polistirolo. Insomma, all’interno di ogni tragedia si ripetono elementi comuni che concorrono ad aggravarne le conseguenze.
Di fatto, nella calamità toscana di inizio novembre, oltre ai danni alle attività artigianali, in particolare alle segherie, l’agricoltura ha pagato il solito rilevante prezzo: ad esempio, sono affogati gli agnelli dell’antica azienda agricola Paolini, mentre acqua e fango hanno distrutto migliaia di piantine di ortaggi sistemate da pochi giorni. Compromesse attrezzature meccaniche, ma da buttare anche fieno, paglia e mangimi. Ad accentuare le tragedie, anche gli sfasamenti climatici rispetto alle stagioni: nel caldo ottobre si sarebbe registrata una riduzione delle piogge pari anche al 50 per cento. Di conseguenza, i terreni agricoli “prosciugati” sarebbero stati più permeabili alle improvvise e forti piogge di novembre, soprattutto in Veneto, Liguria, Toscana e Puglia. L’elenco delle tragedie è sempre più lungo. A pagare precedentemente il prezzo al maltempo è stato, ad esempio, il Basso Piemonte. Qui, a metà ottobre, sono andate perdute soprattutto ingenti quantità di mais e di frumento. L’ennesima replica di disastri antecedenti. Più drammatici i numeri dell’alluvione del 9 ottobre 2014 in Liguria, soprattutto a Genova (anche qui una replica), che nel giro di tre anni ha visto le acque dei principali torrenti, il Fereggiano e il Bisagno, riversarsi in zone ad alta densità abitativa e commerciale: la Regione ha stimato per la parte pubblica circa 250 milioni di danni, 100 quelli calcolati per le attività commerciali e produttive dalle associazioni di categoria.
Due giorni prima a finire sott’acqua Fasano ed Ostuni, in Puglia: 50-60 millimetri di pioggia in poche ore, cioè 60 litri di acqua in un metro quadro di superficie. Poi una grandinata storica, 20 centimetri, che ha imbiancato vaste aree della zona distruggendo colture orticole, quali bietole, broccoli, cavoli, fagiolini, finocchi, insalate, rape, sedano. Anche la campagna olivicola risulterà gravemente compromessa. Precedentemente, sempre in Puglia, un’alluvione aveva colpito il Gargano e la provincia di Foggia. I danni all’agricoltura – vigneti, oliveti, ortaggi e coltivazioni di pomodoro – quantizzati in 60 milioni di euro. Agea è stata costretta a mettere in pagamento l’anticipo dei premi comunitari destinati alle imprese agricole della provincia di Foggia, misura finanziaria adottata dal ministero per alleviare l’impatto delle alluvioni che hanno colpito il Gargano e la Capitanata. Di fronte a questo quadro relativo soltanto alle ultime settimane, stride la notizia che il Fondo nazionale di solidarietà per il 2014 non sia stato ancora stato deciso. E le ultime indiscrezioni parlano di uno stanziamento di 13 milioni a fronte dei 600 che servirebbero. Il che equivale a dire un indennizzo del 2,2 per cento. Questi i dati emersi nel corso di una informativa della Giunta toscana sui danni alluvionali in agricoltura, a seguito dell’evento del 19 settembre scorso, illustrata in commissione Ambiente presieduta da Loris Rossetti. Il ministero, è stato spiegato, “riconosce come assicurabili, e quindi esclusi dall’attivazione del fondo nazionale di solidarietà, il vento e la grandine. Solo aspetti limitati del danno possono dar seguito al fondo, il resto è coperto da provvidenze pubbliche che contribuiscono al pagamento delle polizze assicurative agevolate. Tutto l’impianto normativo, a livello comunitario, è improntato sulle polizze agevolate perché c’è un concorso al pagamento fino all’80 per cento. Di solito lo Stato partecipa con il 65-70 per cento, cui si sommano stanziamenti regionali”. Dall’informativa resa in commissione si è appreso che solo la provincia di Lucca ha concluso il dettaglio dei danni: un milione e 166 mila euro per le produzioni, un milione e 80 mila per le strutture, 600 mila per serre, tunnel con copertura in plastica e vetro, 150 mila per distruzione di tralci o rami di vigneti e oliveti. Tutti danni assicurabili, però, e quindi inutili per l’attivazione del fondo nazionale. Su 2 milioni e 200 mila euro di danni, soltanto 330 mila possono rientrare nelle spese non assicurabili e si parla di danni da erosione superficiale, smottamenti, danni alla viabilità poderale, opere di canalizzazione a livello aziendale (canali di scolo), scorte quali sementi, animali, terriccio, vasi. Sono escluse le strutture, le macchine e gli attrezzi. Da qui l’inciso lanciato in commissione: “Le aziende devono assicurarsi. A livello nazionale, nel Psr, è stata inserita una misura ad hoc, denominata gestione del rischio, proprio per agevolare la stipula di contratti assicurativi”.
La fragilità dei territori
Secondo i dati del ministero dell’Ambiente, le aree ad alta criticità idrogeologica da frana e da alluvione sul territorio italiano risultano pari a 29.517 chilometri quadrati di cui 17.524 per frane e 12.263 per alluvioni. Si tratta del 9,8 per cento della superficie nazionale, con 6.633 comuni interessati pari all’81,9 per cento dei comuni italiani. L’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, ricorda che il territorio nazionale è comunque interessato da circa 486 mila fenomeni franosi attivi o quiescenti che interessano un’area di 20.721 chilometri quadrati, pari al 6,9 per cento del territorio nazionale. Il progetto Iffi, l’Inventario dei fenomeni franosi in Italia, realizzato da Ispra e dalle Regioni, ha evidenziato la presenza di circa 990 mila persone in aree in frana, di 5.708 comuni interessati da fenomeni franosi, di cui 2.940 con livello di attenzione molto elevato (frane che interessano i nuclei urbani), addirittura 706 punti di criticità lungo i 7.000 chilometri di rete autostradale, 1.806 punti di criticità lungo i 16 mila chilometri di rete ferroviaria e ben 11.155 beni culturali localizzati all’interno delle fasce di pericolosità. Legambiente sottolinea “l’assoluta necessità di maggiori investimenti in termini di prevenzione, attraverso cui affermare una nuova cultura dell’impiego del suolo che metta al primo posto la sicurezza della collettività e ponga fine da un lato a usi speculativi e abusivi del territorio, dall’altro al suo completo abbandono”. Ed ancora: “In un contesto in cui sono sempre più evidenti gli effetti dei cambiamenti climatici in atto, che comportano fenomeni meteorologici estremi caratterizzati da piogge intense concentrate in periodi di tempo sempre più brevi, la gestione irrazionale del territorio porta a conseguenze disastrose”.
Il problema dei fondi
Ma quanto servirebbe, in termini economici, per “mettere in sicurezza” il territorio nazionale? Nei Piani stralcio per l’assetto idrogeologico (Pai) redatti dopo la catastrofe di Sarno del 5 maggio 1998, sono stati individuati oltre 11 mila interventi riconosciuti come necessari alla sola sistemazione complessiva dei bacini, per un fabbisogno di circa 44 miliardi di euro. Tra il 1991 e il 2013, secondo la banca dati Rendis dell’Ispra, sono stati spesi complessivamente oltre 12 miliardi, di cui poco meno di quattro e mezzo ministeriali per 4.903 interventi messa in sicurezza del territorio da frane e alluvioni (decreto legge 180/1998), 3,456 miliardi per ordinanze della Protezione civile (periodo 2003-2012), 3,387 miliardi in base alla legge 183/1989, 1,531 miliardi di fondi ex Cipe. Aggiungendo altre voci di spesa, come fa il professor Claudio Margottini della Huazong University of Science and Technology di Wuhan (Cina) nel suo “Difesa del suolo in Italia: quale costo e quale beneficio?”, si arriva tra i 14 e i 18 miliardi spesi dopo Sarno. Insomma, quasi metà della cifra preventivata è stata investita. Sulla scarsa efficacia di tanti investimenti si apre un capitolo complesso: burocrazia dai tempi infiniti, conflitti di competenze, malaffare, strumenti anacronistici. E sempre meno soldi. Negli ultimi anni, in tempi di crisi, si registra una netta tendenza al ribasso. Meno risorse economiche, meno lavori, qualità sempre più scadente. Ad esempio, secondo i dati dell’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, gli interventi di ingegneria naturalistica (OG13) hanno subito una riduzione di circa il 60 per cento negli anni successivi all’attività svolta negli anni 2005 e 2006. Ciò rientra in una complessiva riduzione degli investimenti per l’ambiente e in particolare per la messa in sicurezza del territorio. Anzi, il recente “Sblocca Italia” va in tutt’altra direzione, prevedendo ulteriore cementificazione.
In linea generale le risorse economiche stanziate per la difesa del suolo e per la tutela del territorio sono state più che dimezzate rispetto agli anni scorsi. Emblematico il caso degli accordi di programma tra Regioni e ministero dell’ambiente tra il 2010 e il 2011, dopo una lunga serie di disgrazie avvenute nel biennio (in Sicilia a Giampielieri ad ottobre 2009 e a San Fratello a febbraio 2010, Maierato in Calabria a febbraio 2010, in Liguria ad ottobre 2010, in Veneto a novembre 2010, ecc.). Furono siglati accordi che portarono ad uno stanziamento complessivo di circa 2 miliardi e mezzo di euro, poi più che dimezzati. E di questa somma sono stati stanziati inizialmente appena 200 milioni di euro complessivi per le emergenze di Liguria, Toscana, Emilia-Romagna, Campania, Calabria e Sicilia. Gli 800 milioni rimanenti sono stati ulteriormente prosciugati dalle manovre finanziarie. A fine anno, il 25 ottobre 2011, ancora una tragedia, alle Cinque Terre. L’ennesimo film già visto con le responsabilità della cementificazione selvaggia, dell’abusivismo edilizio, della mancanza di prevenzione del rischio. Il dossier “Ecosistema rischio Liguria” presentato da Legambiente in collaborazione con il Dipartimento della Protezione civile nazionale ha confermato il quadro problematico: nell’85 per cento dei comuni liguri in cui vi sono aree ad elevato rischio idrogeologico sono presenti abitazioni nelle aree golenali, in prossimità di alvei e nelle zone a rischio di frane, e nel 46 per cento dei casi sono presenti in tali zone interi quartieri. Addirittura nel 56 per cento dei comuni intervistati sono stati edificati in zone soggette al pericolo di frane e alluvioni fabbricati industriali, nel 31 per cento strutture sensibili e nel 39 per cento strutture ricettive turistiche e commerciali. A fronte di questa pesante urbanizzazione delle aree ad elevato rischio idrogeologico solo il 4 per cento delle amministrazioni ha attivato interventi di delocalizzazione di edifici o aree industriali. Indicativo, in provincia della Spezia, il caso della bassa vallata del Magra, dove la fertile agricoltura ha ceduto il posto ad una vera e propria aggressione del territorio con l’ubicazione irrazionale di condomini, villette, capannoni e residuali appezzamenti agricoli, costretti in aree sempre più a rischio. La cittadina di Aulla nuova è stata costruita occupando ben metà dell’alveo del Fiume Magra. Il Piano comunale di protezione civile prevedeva il centro di raccolta degli evacuati in un edificio posto in area a rischio idraulico, finito infatti alluvionato. L’urbanista Luciano Pontuale ha efficacemente definito la pianura costiera tra Viareggio e La Spezia come “la marmellata”.
Converrebbe prevenire
Benché ormai ridotti al lumicino, come abbiamo visto, logica vorrebbe che i fondi spesi a seguito delle tragedie per ripagare i danni che alluvioni e frane generano sul territorio sarebbero certamente più proficui se investiti nella prevenzione. Non solo in opere materiali, ma anche in politiche di formazione, di educazione e di comunicazione, strumenti importanti per la mitigazione degli impatti. Sul piano pratico, per contrastare la vulnerabilità dei territori occorrerebbe innanzitutto adeguare le politiche regionali per la prevenzione del rischio ristudiando le mappe, affrontando seriamente la lotta alle illegalità ambientali e demolendo definitivamente gli immobili abusivi, oltre a delocalizzare i beni esposti al pericolo di frane e alluvioni. Ma sappiamo come tutto ciò si scontri con logiche elettorali, con il malaffare e con problemi di lungaggini burocratiche. Del resto è noto che in Italia esiste anche una vera e propria “industria dell’emergenza”, come abbiamo visto ad esempio all’Aquila, che vive degli interventi conseguenti alle calamità naturali.
Parallelamente bisognerebbe eseguire la manutenzione ordinaria dei corsi d’acqua, effettuare la stabilizzazione dei movimenti franosi e procedere alla demolizione delle case in alveo. Ma anche qui ci sono problemi soprattutto di risorse economiche a disposizione. Come ben sottolinea Legambiente, sarebbe utile “uscire dalla logica che la prevenzione del rischi o idrogeologico debba passare obbligatoriamente attraverso la sola attuazione di interventi strutturali e opere di messa in sicurezza. Spesso si pianificano gli interventi per ottenere una effettiva riduzione del rischio locale, senza rendersi conto che il più delle volte il rischio non viene eliminato, ma solo trasferito a valle; così, dopo ogni intervento, i centri abitati situati a valle, trovandosi esposti ad un rischio accresciuto, corrono ai ripari con interventi analoghi, in un circolo vizioso che dissipava risorse col bel risultato di un incremento del rischio complessivo e dei danni alluvionali”. A ciò si aggiunge un’altra questione evidenziata da molti osservatori: il coordinamento tra la pianificazione per la difesa del suolo con le leggi urbanistiche e con i piani regolatori, spesso obsoleti, soprattutto con quelli urbanistici comunali, e non solo con i grandi piani territoriali. C’è poi chi evidenzia falle anche nel sistema di protezione civile, ad iniziare dalle norme che attribuiscono ai sindaci tale responsabilità, persone spesso inesperte di tali materie.
Su tutto, infine, occorrerebbe restituire al territorio, alla natura, all’agricoltura, lo spazio necessario e ai corsi d’acqua le aree per permettere esondazioni controllate. Una seria politica di manutenzione del territorio è un imperativo per limitare la perdita di vite umane, di abitazioni e di attività economiche, per prevenire i danni all’agricoltura, per garantire pienamente il diritto alla salvaguardia della privata e pubblica incolumità, per creare occupazione qualificata, per ridurre lo spazio al malaffare.