Il progetto, svoltosi dal 2015 al 2017, si è occupato di elaborare strumenti di tipo pratico-applicativo per migliorare la fertilità dei suoli in agricoltura biologica, attraverso l’analisi di vari casi di studio: vi hanno partecipato, fra gli altri, l’Università di Firenze, l’Università di Pisa e la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa; la conduzione complessiva era a carico dell’Istituto di ricerche dell’agricoltura biologica (FiBL), una rete di centri di competenza svizzeri, tedeschi e austriaci.
L’ audiovisivo a carattere tecnico-divulgativo, praticamente un tutorial a disposizione gratuita degli agricoltori, è stato realizzato dal Laboratorio multimediale di Ateneo, sotto la supervisione scientifica di Cesare Pacini, docente di Agroecologia del dipartimento fiorentino di Scienze delle Produzioni Agroalimentari e dell'Ambiente (DISPAA- Università di Firenze), insieme a Daniele Antichi (Università di Pisa) e all’agroecologo Luca Conte (Scuola esperienziale itinerante di agricoltura biologica). “Il test della vanga” – questo il nome del video – indaga attraverso l’osservazione di un semplice prelievo di terra di circa 30 centimetri di profondità, realizzato con una forca o una vanga, gli elementi che contribuiscono positivamente alla fertilità del terreno, come ad es. la sua permeabilità all’acqua, all’aria e alle radici, la presenza di flora spontanea e di lombrichi, ma anche il colore e l’odore buono, testimonianza della trasformazione della sostanza organica in humus ad opera dei funghi.
Viceversa, sono segnali negativi sul fronte della fertilità sia una zolla compattata, che non si frantuma neppure dopo una caduta da un metro di altezza, sia una terra che presenti sfumature grigie e bluastre, conseguenza dell’azione dei batteri che – in assenza di ossigeno – trasformano la sostanza organica in composti maleodoranti (acido solfidrico, acido acetico…).
Il test della vanga è stato proposto come strumento di pratico utilizzo in vari workshop a circa 100 agricoltori toscani (vitivinicoltori e agricoltori di seminativi). In seguito è stato prodotto il tutorial, che è disponibile da pochi giorni sul web e di fatto è una traduzione operativa delle indagini più propriamente scientifiche condotte dal gruppo fiorentino e dai colleghi pisani all’interno del progetto FertilCrop.
“L’indice principale della fertilità del terreno – spiega Cesare Pacini – è la presenza di sostanza organica, l’insieme dei composti organici, di origine sia animale che vegetale, presenti nel terreno. Meno sostanza organica equivale a meno fertilità. Nella ricerca abbiamo indagato e messo a confronto le cosiddette lavorazioni conservative, le pratiche cioè che hanno lo scopo di conservare la fertilità del terreno. E insieme abbiamo proceduto al paragone fra agricoltura convenzionale e agricoltura biologica riguardo ai vari indicatori di fertilità”.
I ricercatori fiorentini hanno realizzato le loro sperimentazioni presso Montepaldi, l’azienda agricola dell’Ateneo, dove è attivo l’esperimento di agricoltura biologica più duraturo di tutta l’area del Mediterraneo, MOLTE (Montepaldi Long Term Experiment), iniziato nel 1991 sotto la direzione di Concetta Vazzana.
Fra le lavorazioni conservative della fertilità del terreno, la tradizionale aratura – che espone la terra a diretto contatto con l’atmosfera e ne aumenta il tasso di mineralizzazione, impoverendola di sostanza organica – è stata paragonata con le tecniche della rippatura, con cui il suolo viene smosso fino ad una profondità di 50 cm circa ma senza essere rivoltato, e con la frangizollatura, che arriva ad una profondità di 10 cm. I risultati segnalano che l’aratura garantisce un maggior livello di produttività, ma la rippatura migliora la struttura fisica del terreno rendendolo più permeabile e capace di ospitare radici e forme di vita animale. Oltre a questi elementi, il confronto fra agricoltura biologica e convenzionale rivela che la disponibilità di azoto nel terreno si mantiene praticamente uguale nei due casi: nell’agricoltura convenzionale grazie ai fertilizzanti, nell’agricoltura biologica, invece, grazie alle colture di leguminose (erba medica, cece, lenticchia…).“Un’altra sfida per la ricerca in questo campo – spiega ancora Cesare Pacini – è capire come mobilizzare il fosforo che è presente nei campi coltivati secondo il metodo biologico, ma non è facilmente assimilabile dalle piante”.