Si è fatto un gran parlare, nelle ultime settimane, di quanto la tanto vituperata globalizzazione stia in realtà contribuendo a salvare milioni di vite umane dalla piaga della fame. A provocare il dibattito internazionale sono stati i dati dell’ultimo rapporto della Fao in materia, secondo i quali ben 216 milioni di persone negli ultimi 25 anni sono uscite dalla più nera indigenza. Alla base di questi risultati positivi vengono indicati diversi fattori, tutti comunque accomunati dall’egida della mondializzazione.
Da una parte, infatti, tra i fenomeni positivi vi è l’ingresso di molti Paesi cosiddetti “emergenti” nel mercato globale, con la progressiva uscita dalla fame degli abitanti più poveri. A ciò si sommano le rimesse degli emigrati, cioè dei tanti cittadini costretti a trovare lavoro altrove, che finiscono per diventare fonte di sostentamento – con i loro trasferimenti di contante – per i familiari rimasti nella madrepatria.
Dall’altra c’è la sostanziale evoluzione di molte politiche per lo sviluppo, che passano dagli aiuti a pioggia e sostegni più mirati e proficui, parallelamente agli investimenti imprenditoriali caratterizzati sempre più dalla collaborazione tra pubblico e privato e dal partenariato tra aziende locali e imprese straniere.
Su tutto ciò pesa il ruolo dell’agricoltura: più ricerche hanno dimostrato che la crescita del prodotto agricolo lordo ha un’efficacia tripla sulla riduzione della povertà rispetto a quella del prodotto non agricolo. Ciò perché la maggior parte della popolazione mondiale, specie nelle aree più arretrate, vive ancora sui campi.
Tale maggiore attenzione al settore primario è però merito soprattutto degli investimenti privati locali: i dati confermano come nei Paesi a reddito medio-basso, nel confronto con gli investimenti pubblici, si è in presenza di investimenti privati locali quadrupli in valore, e, tra l’altro, potenzialmente più efficienti. Gli investimenti internazionali sono invece in caduta libera da anni: sul totale degli investimenti diretti esteri (Ide) l’agricoltura contava circa l’8% nel periodo 1980-85, crollando sino all’1,8% del periodo 1996-2000. Indubbiamente “l’atteggiamento è successivamente cambiato, per la maggiore attenzione nel frattempo offerta alle componenti di qualità del cibo, e perché si è allargata la base dei consumatori specie di quelli urbanizzati”, come osserva il professor Luigi Troiani, incaricato di Relazioni internazionali e di Storia e Politiche delle istituzioni europee presso la Pontificia Università “San Tommaso d’Aquino” di Roma. “Il mutamento climatico, tradottosi in desertificazioni e allagamenti imprevisti, ci ha messo del suo nello spostare investimenti in zone lontane dal rischio climatico – continua il professore. “Si sono anche avuti dirottamenti di grandi masse di granaglie verso i biocarburanti. Come risultato, l’agroalimentare è divenuto più remunerativo. Il che spiega la piccola ripresa del primo quinquennio del nuovo secolo con un dato, il 2,8% di Ide, innalzatosi al 4,8% nel quinquennio successivo”.
La Fao, pur alimentando il dibattito sui benefici della globalizzazione in tal senso, confronto che spesso scivola sui presunti aiuti garantiti dagli organismi geneticamente modificati alla riduzione della povertà alimentare, tuttavia non manca di sottolineare i rischi per la crescente presenza di capitale privato nell’agroalimentare arretrato. Non a caso ha dettato i cosiddetti principi per investimenti responsabili in agricoltura e sistema alimentare, stabilendo una griglia di punti di forza e di debolezza nel rapporto tra pubblico e privato nei Paesi emergenti e non. In particolare, come ricorda lo stesso Troiani, ha fissato “una technical assistance facility, che può risolversi in un interessante aiuto per l’investitore estero”.