“Farm”. E’ questo l’emblema più fedele per rappresentare l’agricoltura americana. La “farm”, ossia la grande fattoria – che spesso ha dimensioni superiori ai 300 ettari – incarna il più autentico modello rurale americano, fatto di un’organizzazione moderna e altamente tecnologica e di una grande disponibilità di mezzi meccanici. Insieme a quella canadese, che impegna anche tante persone d’origine italiana, l’agricoltura americana è la più meccanizzata, la più innovativa e la più forte del mondo. Con una costante attenzione ai modelli di business.
La scelta delle specie da coltivare, ad esempio, è quasi sempre frutto di attente ricerche di mercato: il “farmer” va a caccia dei consigli giusti per sapere quali vegetali saranno più richiesti l’anno successivo, quindi non ha dubbi nel convertire la propria produzione verso le aree merceologiche che tirano di più. Parallelamente si rivolge alle multinazionali più importanti per avere i semi che garantiscono una resa maggiore, non rifiutando, se è il caso, le sementi geneticamente modificate. Insomma, l’agricoltura è soprattutto un affare economico.
Certo, non manca qualche elemento romantico che richiama i tempi della rivoluzione americana di fine Settecento, quando quasi la totalità della popolazione si sosteneva con il lavoro nei campi (oggi soltanto il due per cento degli statunitensi si dedica all’agricoltura). I cavalli, i cappelli da cow boy e la musica country alimentano il folklore. Ma alla tradizione di facciata si affiancano sempre i macchinari più moderni per la lavorazione della terra o per l’imballaggio automatico del cotone.
Il contadino americano, inoltre, convive con la diffusa presenza delle grandi società, le celebri “corporations”, capaci di trasformare l’agricoltura in un’attività a volte “spregiudicata” e quasi sempre molto redditizia. Non a caso il termine “agribusiness” è di matrice anglosassone. Nonostante la crisi internazionale, l’agricoltura statunitense – grazie anche alla notevole quantità di territorio – rappresenta un modello economico consolidato e molto ambito, forte di una produzione abbondante – si pensi a grano, farine, soia a livello intensivo – che garantisce anche importanti quote di export. Grandi quantità che lasciano all’Europa la bandiera della qualità.
L’altra faccia della medaglia per l’agricoltura a stelle e strisce, però, è costituita dai danni all’ambiente, soprattutto a causa dell’eccessivo ricorso alle riserve idriche (drammatica la situazione in California), ma anche all’uso indiscriminato di prodotti chimici destinati a combattere le erbacce e i parassiti.
Il ruolo della scienza
Considerata l’importanza economica del settore e, nel contempo, presa coscienza dei problemi spesso irreversibili che un eccessivo sfruttamento della terra e delle riserve può procurare all’ambiente americano, le politiche agricole statunitensi sono sempre più orientate a sostenere i centri di ricerca per cercare soluzioni scientifiche di lungo termine. Una delle carte su cui gli Usa stanno puntando è rappresentata dalle biotecnologie.
Non hanno fatto mistero di ciò sia il ministro statunitense dell’Agricoltura, Thomas Vilsack, sia il sottosegretario Michael T. Scuse, entrambi ospiti ad Expo 2015 a Milano.
Le loro dichiarazioni, così come quelle dell’ambasciatore americano in Italia John R. Phillips, partono dalla consapevolezza che nel 2025 sulla Terra ci saranno oltre nove miliardi di individui e ci sarà l’esigenza di sfamare una popolazione mondiale sempre più in crescita. Ciò in un contesto di cambiamenti climatici e di salvaguardia dell’ambiente. La strada indicata all’unisono è quindi quella della scienza e della tecnologia per rispondere a queste sfide, per accrescere la produzione di cibo ma con meno acqua, risorsa eccessivamente sfruttata negli anni passati.
In fondo, lo stesso padiglione Usa ad Expo 2015 racconta gli orientamenti dell’agricoltura statunitense per il futuro: ogm, nuove tecnologie, robotica, big data, ma anche attenzione ai consumatori.
Uno degli innovativi modelli esposti anche ad Expo 2015 è la cosiddetta “vertical farm”, ossia la fattoria verticale che richiede meno spazio rispetto ad una coltivazione tradizionale. E’ l’elemento distintivo del padiglione statunitense, condiviso con quello israeliano (parete lunga 70 e alta 12 metri) e con quello italiano della Coop, con orti verticali su un progetto dell’Enea.
Ma altra elevata potenzialità a vantaggio dell’agricoltura americana è rappresentata dalla possibilità di coltivare prodotti locali. Il 90 per cento della popolazione, infatti, potrebbe avere a disposizione cibo a chilometri zero o comunque coltivato entro 160 chilometri. Il dato emerge da una recente ricerca condotta da Elliott Campbell, professore presso la University of California Merced, basata sulla mappatura dei terreni agricoli. Secondo le statistiche, il cibo attualmente viaggia anche per oltre mille chilometri prima di raggiungere la tavola dei consumatori, mentre gli agricoltori potrebbero trarre vantaggio da una maggiore sensibilizzazione della popolazione del territorio in cui operano verso l’opzione dei prodotti locali.
Secondo lo studio, Los Angeles potrebbe alimentare fino al 50 per cento della propria popolazione con prodotti coltivati entro 100 miglia, cioè entro circa 160 chilometri, mentre la città di San Diego potrebbe supportare il 35 per cento della propria popolazione con prodotti coltivati a livello locale.
L’apertura con Cuba
Un’altra carta che gli Stati Uniti stanno giocando per garantire nuova linfa alla propria economia, agricoltura compresa, è il disgelo con Cuba. Ad oltre cinquant’anni dalla crisi della Baia dei Porci (1961), allora c’erano John Fitgerald Kenndy e Fidel Castro, oggi Barack Obama e Raul Castro hanno di fatto ristabilito relazioni diplomatiche finalizzate, in particolare, a riattivare canali di collaborazione economica.
Dalla riapertura dei rapporti potrebbero trarre grossi vantaggi soprattutto le coltivazioni di riso, che costituisce gran parte della dieta alimentare dei cubani, ma anche la produzione avicola, considerato il largo uso di pollame sulle tavole dell’arcipelago caraibico.
Chip Bowling, presidente dell’Associazione nazionale dei produttori di mais degli Stati Uniti (Ncga), è entusiasta. “L’annuncio è una buona notizia per gli agricoltori di mais americani. Abbiamo a lungo sostenuto che le relazioni commerciali con Cuba dovessero normalizzarsi e mentre cerchiamo di aprire nuovi mercati e nutrire il mondo ci complimentiamo con l’amministrazione americana che si è adoperata per eliminare gli ostacoli normativi e finanziari nel commercio con Cuba. Parliamo di un mercato di 11 milioni di consumatori e continueremo a lavorare con il Consiglio Usa dei cereali e con i nostri alleati del versante zootecnico per promuovere il mais, i prodotti derivati e le proteine di alta qualità come fonte di nutrizione per i consumatori a Cuba e in tutto il mondo”.
Il nodo del biologico
Nonostante l’immagine della produzione agricola americana sia più legata alla quantità che alla qualità, gli Stati Uniti riservano al biologico ben due milioni di ettari di terreni, un quinto dell’intera riserva dell’Unione europea (circa dieci milioni di ettari). Appartiene inoltre al mondo anglosassone il Paese con la più grande area agricola biologica, l’Australia, con 12 milioni di ettari (il 97 per cento di questa superficie è utilizzata come pascolo). In America non va dimenticata l’Argentina, con 3,8 milioni di ettari.
Dal 2012, grazie ad uno specifico accordo bilaterale, gli alimenti biologici certificati nell’Unione europea o negli Stati Uniti possono essere venduti come “prodotti biologici” nei rispettivi territori. Il partenariato è finalizzato pure alla promozione dell’agricoltura biologica, favorendo di conseguenza anche il relativo settore industriale, già in espansione.
Il valore complessivo del settore biologico negli Usa e nell’Unione europea è di circa 40 miliardi di euro, in crescita.
In occasione della firma dell’accordo, Kathleen Merrigan, sottosegretario del ministero dell’Agricoltura degli Stati Uniti, ha dichiarato: “L’accordo offre numerose nuove opportunità di mercato agli agricoltori e alle aziende di prodotti biologici delle due sponde dell’Atlantico. Si tratta di un evento positivo per l’economia americana e per la strategia in materia di occupazione del presidente Obama. L’accordo apre nuovi mercati agli agricoltori e alle imprese agricole degli Usa, crea maggiori opportunità per le piccole imprese nonché occupazione di qualità nelle aziende degli Stati Uniti attive nei settori del condizionamento, della spedizione e della commercializzare dei prodotti biologici.".
In precedenza, i coltivatori e le aziende che aveva intenzione di commercializzare la produzione sulle due sponde dell’Atlantico dovevano ottenere certificazioni distinte attestanti il rispetto delle due normative: ciò comportava un duplice onere a livello di spese, di ispezioni e di pratiche.
I timori per il Ttip
Se l’accordo sul biologico non ha provocato grandi polemiche, ben altra situazione accoglie il Trattato Transatlantico sul commercio e gli investimenti (Transatlantic Trade and Investment Partnership), noto con l’acronomo Ttip. Cioè l’accordo commerciale di libero scambio tra Unione europea e Stati Uniti.
Secondo molti osservatori europei, sulla bilancia di vantaggi e svantaggi del Ttip per l’agricoltura e il bio europeo, l’ago penderebbe verso i prodotti Usa. "La pericolosità di questo accordo per un settore fortemente legato ai diritti essenziali degli individui non va sottovalutata – ha spiegato Vincenzo Vizioli presidente di Aiab, l’associazione delle aziende biologiche. "Da un lato c’è l’Unione europea, che ha fondato il proprio mercato comune sulla buona qualità dell’agricoltura, anche nel settore bio, proteggendola fino ad oggi. Dall’altro un Trattato che, abbattendo le ultime barriere che dividono le due coste dell’Atlantico, consentirà a Usa e Canada di importare i migliori prodotti dell’agricoltura europea, esportando cibo di qualità inferiore e con più bassi livelli di sicurezza alimentare. Inoltre c’è da rimarcare l’assurdità e la pericolosità per i diritti dei cittadini, di una trattativa tenuta segreta e fatta alle spalle degli artefici della produzione agricola e dei consumatori, trattati come attori passivi".
Dal report di Aiab emerge una fotografia radicalmente negativa per l’Europa e per l’Italia. A rischio sarebbero la qualità dei prodotti e del modo di coltivazione, quindi la salute umana e ambientale. Ma anche la credibilità del “made in Europe”, con un conto economico nettamente in perdita.
Secondo stime elaborate dall’associazione “FairWatch”, a fronte dell’esportazione europea oltreoceano di bistecca senza ormoni, l’Europa importerà dagli Usa un quantitativo doppio di carne rossa addizionata di ormoni di crescita. Stessa sorte per la farina bianca (a basso tenore di ogm dall’Unione europea e, al contrario, praticamente tutta ogm dagli Usa) e il latte. Questo comporterà un calo non trascurabile della qualità dei prodotti in entrata in Europa.
La più sensibile differenza tra il mercato agroalimentare statunitense e quello europeo, secondo i tanti critici, sarebbe nel controllo della qualità di quello che arriva in tavola e il funzionamento delle misure sanitarie e fitosanitarie. Se in Europa vige il sistema “farm to fork” che monitora e controlla l’intera filiera di un prodotto agroalimentare, gli Usa hanno un approccio a valle. Ciò significa che oltreoceano si basa la sicurezza del consumatore finale sulla prova evidente di un collegamento tra intossicazione alimentare e alimento, attraverso costose analisi a carico del probabile intossicato. In caso queste evidenze sanitarie e scientifiche non siano chiare, il prodotto incriminato rimane sul mercato.
Il biologico europeo, settore agricolo sottoposto a controlli molto rigidi a carico dei produttori, se messo in competizione con l’organic statunitense si trasformerebbe per gli europei in un genere di lusso, dati i costi più elevati dei controlli.
Attualmente soltanto l’8 per cento delle importazioni alimentari dell’Unione europea giunge dagli Usa a fronte di un 13 per cento di esportazioni. Secondo i detrattori, la caduta delle “frontiere” tra i due blocchi atlantici gioverà soprattutto agli Usa, fino ad oggi fortemente bloccati nelle esportazioni alimentari a causa dei regolamenti sanitari europei.
Su tutto c’è il peso delle multinazionali. Secondo uno studio della società olandese “Ecorys” gli attori principali degli scambi agroalimentari sono proprio le grandi aziende internazionali, che rappresentano da sole il 52 per cento del fatturato annuo del settore. Per le piccole e medie imprese la competizione nel mercato dell’agroalimentare è sempre più difficile.