Il riesame dell’attuazione delle politiche ambientali (EIR) è lo strumento con il quale l’Unione Europea, attraverso un complesso di report specificamente dedicati, intende vagliare lo status delle normative ambientali nei paesi membri evidenziando punti di forza e problematiche.
L’Italia, da quanto emerge nel “country report“, brillerebbe per alcune pratiche, come le Valutazioni Ambientali Integrate; per l’applicazione dei progetti LIFE, finalizzati alla tutela della natura e della biodiversità e per lo sviluppo di indicatori alternativi al PIL, come il BES (Benessere Equo e Sostenibile), curato da Istat.
Il nostro Paese, a sorpresa, è inoltre il membro più attivo nell’utilizzo dell’EMAS (uno strumento comunitario al quale possono aderire volontariamente le organizzazioni per valutare e migliorare le proprie prestazioni ambientali e fornire agli stakeholders informazioni sulla propria gestione ambientale) e vanta il maggior numero di prodotti certificati Ecolabel in tutta la UE.
Tristemente note, al contrario, le criticità evidenziate dal report: la pessima qualità dell’aria, la caotica gestione dei rifiuti e delle acque reflue e – non certo ultima per gravità – una dissennata politica del consumo di suolo.
Il documento non è solamente una summa di elenchi di cose buone e cattive, ma coltiva anche l’obiettivo di proporre soluzioni. Al suo interno si rimanda per esempio all’opportunità – non sempre adeguatamente sfruttata – di attingere ai prestiti della Banca Europea per gli Investimenti Ambientali (con il sostegno dei Fondi strutturali e di investimento europei e del Fondo europeo per gli investimenti strategici), oppure alla possibilità di sfruttare il successo del progetto integrato «GESTIRE 2020» (utilizzato per aggiornare il Quadro di azione prioritario Natura 2000 della Lombardia) per tradurlo su scala nazionale.
Appare interessante soprattutto l’invito ad una revisione della pressione fiscale: “L’Italia dovrebbe considerare la creazione di una commissione speciale per valutare le misure più idonee per la riforma del sistema di tassazione ambientale”.
Oltre ai tentativi naufragati di Clini e Passera nel 2012, va ricordato che anche il Governo Renzi, con la legge di delega fiscale nr. 23 del marzo 2014, tentò di introdurre nuove forme di fiscalità “finalizzate a orientare il mercato verso modi di consumo e produzione sostenibili, e a rivedere la disciplina delle accise sui prodotti energetici e sull’energia elettrica […]”. Il gettito avrebbe dovuto essere reindirizzato “prioritariamente alla riduzione della tassazione sui redditi, in particolare sul lavoro generato dalla green-economy, alla diffusione e innovazione delle tecnologie e dei prodotti a basso contenuto di carbonio e al finanziamento di modelli di produzione e consumo sostenibili, nonché alla revisione del finanziamento dei sussidi alla produzione di energia da fonti rinnovabili”.
Ma la legge, come troppo spesso accade, non è mai stata attuata e ha subito la stessa sorte del fantomatico Green Act. Indicato nella stessa relazione come “essenziale” per il compimento di pratiche vantaggiose per l’economia e per l’ambiente, previsto dal Governo Renzi per il 2015, il Green Act non ha mai visto la luce e probabilmente – con tutta l’attenzione dirottata su legge elettorale e prossime elezioni – mai la vedrà in questa legislatura. Il Ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, a margine dell’incontro dedicato ai 20 anni del Decreto Ronchi, ha dichiarato che il Green Act è stato in realtà applicato, anche se solo parzialmente: “deframmentato” in vari provvedimenti, che dovrebbero comunque portare l’Italia “nella giusta direzione, come l’Unione Europea ha avuto modo di riconoscere”…
Eppure, secondo la Commissione Juncker, i pochi passi avanti compiuti dall’Italia in materia ambientale sono da attribuirsi soprattutto alle iniziative UE e le multe che l’Unione commina al nostro Paese sembrerebbero confermare la generale insoddisfazione di Bruxelles.
L’ostacolo più critico all’attuazione delle direttive europee in Italia è da ritenersi soprattutto di ordine amministrativo e la prima causa è stata identificata in un’inefficienza quasi endemica del nostro paese, a partire dalla frammentaria e conflittuale distribuzione di poteri e competenze. In sostanza, si dice, l’Italia si muove tra eccellenze locali e la totale mancanza di una regia nazionale coerente e organizzata: “Secondo l’indicatore della Banca Mondiale relativo all’efficacia del governo per il 2015, che valuta la percezione della qualità dei servizi pubblici, i punteggi del settore pubblico italiano sono ben al di sotto della media in termini di efficienza ed efficacia – recita il rapporto – Le competenze sono condivise tra le amministrazioni centrali e locali in modo poco chiaro, generando conflitti di sovrapposizione fra le varie istituzioni”.
Ora l’auspicio è che questo nuovo stimolo da parte dell’UE non sia nuovamente percepito dalla politica nazionale come un ostacolo – o, ancor peggio, come un’imposizione di sovranità – ma come un concreto stimolo a migliorare e diventare un paese “moderno”.L’Italia, da quanto emerge nel “country report“, brillerebbe per alcune pratiche, come le Valutazioni Ambientali Integrate; per l’applicazione dei progetti LIFE, finalizzati alla tutela della natura e della biodiversità e per lo sviluppo di indicatori alternativi al PIL, come il BES (Benessere Equo e Sostenibile), curato da Istat.
Il nostro Paese, a sorpresa, è inoltre il membro più attivo nell’utilizzo dell’EMAS (uno strumento comunitario al quale possono aderire volontariamente le organizzazioni per valutare e migliorare le proprie prestazioni ambientali e fornire agli stakeholders informazioni sulla propria gestione ambientale) e vanta il maggior numero di prodotti certificati Ecolabel in tutta la UE.
Tristemente note, al contrario, le criticità evidenziate dal report: la pessima qualità dell’aria, la caotica gestione dei rifiuti e delle acque reflue e – non certo ultima per gravità – una dissennata politica del consumo di suolo.
Il documento non è solamente una summa di elenchi di cose buone e cattive, ma coltiva anche l’obiettivo di proporre soluzioni. Al suo interno si rimanda per esempio all’opportunità – non sempre adeguatamente sfruttata – di attingere ai prestiti della Banca Europea per gli Investimenti Ambientali (con il sostegno dei Fondi strutturali e di investimento europei e del Fondo europeo per gli investimenti strategici), oppure alla possibilità di sfruttare il successo del progetto integrato «GESTIRE 2020» (utilizzato per aggiornare il Quadro di azione prioritario Natura 2000 della Lombardia) per tradurlo su scala nazionale.
Appare interessante soprattutto l’invito ad una revisione della pressione fiscale: “L’Italia dovrebbe considerare la creazione di una commissione speciale per valutare le misure più idonee per la riforma del sistema di tassazione ambientale”.
Oltre ai tentativi naufragati di Clini e Passera nel 2012, va ricordato che anche il Governo Renzi, con la legge di delega fiscale nr. 23 del marzo 2014, tentò di introdurre nuove forme di fiscalità “finalizzate a orientare il mercato verso modi di consumo e produzione sostenibili, e a rivedere la disciplina delle accise sui prodotti energetici e sull’energia elettrica […]”. Il gettito avrebbe dovuto essere reindirizzato “prioritariamente alla riduzione della tassazione sui redditi, in particolare sul lavoro generato dalla green-economy, alla diffusione e innovazione delle tecnologie e dei prodotti a basso contenuto di carbonio e al finanziamento di modelli di produzione e consumo sostenibili, nonché alla revisione del finanziamento dei sussidi alla produzione di energia da fonti rinnovabili”.
Ma la legge, come troppo spesso accade, non è mai stata attuata e ha subito la stessa sorte del fantomatico Green Act. Indicato nella stessa relazione come “essenziale” per il compimento di pratiche vantaggiose per l’economia e per l’ambiente, previsto dal Governo Renzi per il 2015, il Green Act non ha mai visto la luce e probabilmente – con tutta l’attenzione dirottata su legge elettorale e prossime elezioni – mai la vedrà in questa legislatura. Il Ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, a margine dell’incontro dedicato ai 20 anni del Decreto Ronchi, ha dichiarato che il Green Act è stato in realtà applicato, anche se solo parzialmente: “deframmentato” in vari provvedimenti, che dovrebbero comunque portare l’Italia “nella giusta direzione, come l’Unione Europea ha avuto modo di riconoscere”…
Eppure, secondo la Commissione Juncker, i pochi passi avanti compiuti dall’Italia in materia ambientale sono da attribuirsi soprattutto alle iniziative UE e le multe che l’Unione commina al nostro Paese sembrerebbero confermare la generale insoddisfazione di Bruxelles.
L’ostacolo più critico all’attuazione delle direttive europee in Italia è da ritenersi soprattutto di ordine amministrativo e la prima causa è stata identificata in un’inefficienza quasi endemica del nostro paese, a partire dalla frammentaria e conflittuale distribuzione di poteri e competenze. In sostanza, si dice, l’Italia si muove tra eccellenze locali e la totale mancanza di una regia nazionale coerente e organizzata: “Secondo l’indicatore della Banca Mondiale relativo all’efficacia del governo per il 2015, che valuta la percezione della qualità dei servizi pubblici, i punteggi del settore pubblico italiano sono ben al di sotto della media in termini di efficienza ed efficacia – recita il rapporto – Le competenze sono condivise tra le amministrazioni centrali e locali in modo poco chiaro, generando conflitti di sovrapposizione fra le varie istituzioni”.
Ora l’auspicio è che questo nuovo stimolo da parte dell’UE non sia nuovamente percepito dalla politica nazionale come un ostacolo – o, ancor peggio, come un’imposizione di sovranità – ma come un concreto stimolo a migliorare e diventare un paese “moderno”.