Presenti, tra gli altri, il viceministro alle Politiche agricole, Andrea Olivero, l’avvocato Luigi Scialla, il priore del Consorzio del Falerno, Giuseppe Garozzo e il presidente dell’Unione coltivatori italiani (Uci) e vicepresidente Copagri, Mario Serpillo.
Di seguito la relazione del presidente Mario Serpillo.
Quando si parla di vino, ci si occupa di una delle bandiere del “made in Italy”. Ci si sofferma su un settore dove il nostro Paese da anni occupa una posizione di preminenza. Con una verità indiscutibile: il successo internazionale del vino italiano è frutto principalmente dell’attenzione alla qualità. Una scelta lungimirante e non casuale, dettata in particolare dai postumi di quello scandalo del metanolo degli anni Ottanta che possiamo considerare lo spartiacque tra un modo vecchio di concepire la vitivinicoltura – focalizzato sulle quantità, sul vino sfuso, destinato al consumo locale o sul prodotto da “taglio” – e un modo professionale di orientare la destinazione della produzione vinicola, che oggi passa per l’imbottigliamento, l’etichettatura, le certificazioni, l’introduzione di moderne tecnologie di produzione, il marketing, l’internazionalizzazione, la conquista di nuovi mercati. Tutto ciò è servito ad attivare una serie di processi virtuosi che incidono non solo sull’esaltazione degli aspetti materiali del prodotto, come quelli salutistici ed eco-compatibili, ma anche sul recupero delle sue antiche valenze immateriali e simboliche: si pensi alla dimensione storica – emblematico quel “in vino veritas” dei Romani – a quella religiosa – nella nostra tradizione il vino è addirittura sostanza stessa della divinità – a quella emozionale, mediatrice tra le persone, o a quella didattica, con la trasmissione delle conoscenze per la scoperta dei segreti. Si tratta di componenti che hanno ricollocato il vino nei piani alti della nostra cultura, riavvicinando tra l’altro la preziosa bevanda all’universo giovanile. Una schiera di elementi che costituisce il necessario presupposto per le ormai basilari certificazioni di qualità. In tali contesti non va, poi, dimenticata la riscoperta del legame tra vino e territorio. E’ un valore centrale per la notorietà e la reputazione del prodotto e per la sua collocazione storico-culturale e ambientale. Territorio come area fisica, spazio antropico e patrimonio di valori. Questa simbiosi sta garantendo nuova visibilità alle peculiarità delle materie prime, al recupero dei vitigni autoctoni, alle implicazioni formative, alle radicate prassi dei processi di lavorazione e trasformazione, fattori accompagnati – quasi sempre – da elementi di creatività, unicità, originalità, passione. Insomma, tra i segreti del successo di questo importante segmento del “made in Italy” c’è proprio la “ricomposizione” tra vino, cibo, territorio, ambiente, sistema agroalimentare e cultura locale. Connessioni strategiche che avvengono, sotto la bandiera della qualità totale, in evidente contrapposizione con le tendenze all’omologazione dei processi e dei sapori.
Ecco perché parlare oggi del campano Falerno, cioè di uno dei vini dalle più antiche e nobili origini, esaltato nelle sue tre varietà da tutti i poeti della classicità romana (da Catullo a Cicerone, da Dionigi d’Alicarnasso a Marziale, da Orazio ad Ovidio, da Plinio il Vecchio a Tibullo, da Tito Livio a Varrone, da Virgilio a Vitruvio), significa muoversi proprio in tali ambiti. Equivale alla riscoperta di una vera e propria ricchezza materiale e immateriale, collocata su binari storici millenari e unici. Stiamo focalizzando l’attenzione su un patrimonio che – sul piano storico – include la prima etichettatura operata dai Romani sulle anfore attraverso tappi muniti di targhette (“pitaccium”) che ne garantivano l’origine e l’annata e ne prevenivano i tentativi di imitazione. Per questo qualcuno lo definisce il primo vino a denominazione del mondo intero. Un patrimonio che comprende, anche, la celebre scritta ritrovata a Pompei ove Edone fa sapere: “Qui si beve per un asse; se ne paghi due, berrai un vino migliore; con quattro, avrai vino Falerno”. Un vino con una presenza già “mondializzata”, dalla Bretagna alla Spagna, da Alessandria d’Egitto a Cartagine. E con uno stretto legame parallelo allo scorrere della storia, da Cesare che lo utilizzava per festeggiare le sue vittorie, fino alle testimonianze medievali o a quelle del periodo borbonico con le bonifiche dei terreni. Nel contempo, però, parlare oggi del Falerno comporta anche la necessità di analizzarne l’evoluzione storica in un’ottica moderna, affrontando il tema centrale del rapporto tra quello che è diventato uno straordinario prodotto di nicchia, concentrato nel Casertano e che ha il vantaggio competitivo della qualità più che della quantità, e la sua penetrazione nei mercati. Essere prodotto di nicchia di mercato significa soprattutto veder rafforzato quel rapporto con il territorio di produzione, già richiamato in precedenza. Un sistema locale ricco di risorse collegate al mondo rurale, dalle produzioni ai paesaggi, dai borghi storici ai giacimenti archeologici, dalle risorse naturali alle attività di trasformazione dei prodotti tipici, dalle cantine alle enoteche, dagli agriturismi alle residenze rurali, di cui la Campania è ricchissima. E presuppone anche il coinvolgimento diretto delle sovrastrutture e delle attività collaterali, dalla ricettività alla ristorazione, dall’artigianato al sistema museale, dall’associazionismo turistico ai corsi di cucina, ecc. Non va, infine, trascurato il cosiddetto “enoturismo”, escursionismo diretto a tutto ciò che concerne la produzione del vino e dei prodotti vitivinicoli attraverso percorsi che includono aziende, vigne, cantine, luoghi di lavorazione, di imbottigliamento, di invecchiamento, di conservazione. Il fenomeno, affermatosi in Italia dagli anni Novanta, ha ricevuto massima attenzione soprattutto dal Censis, che in un report specifico ha quantizzato in tre milioni gli italiani che hanno vissuto questa esperienza, con una forte concentrazione nella classe di età tra i 45 ed i 64 anni, con status medio-alto. Le grandi potenzialità del Falerno possono, quindi, concorrere alle sue crescenti affermazioni rispettando questi fattori alla base del successo del sistema vitivinicolo italiano nel suo complesso. Cioè è oggi necessario rispondere alle forti domande di riconoscibilità del prodotto – Doc, Docg, ecc. -, di territorialità intesa come enfasi del contesto culturale locale, di conoscenza e rapporto diretto con il produttore, di eco-compatibilità, di attenzione e di fidelizzazione del cliente.
Occorre, inoltre, massimizzare i benefici derivanti dai punti di forza di un mercato di nicchia. Ad esempio, la specializzazione, la focalizzazione e la differenziazione esaltano la qualità intrinseca del prodotto, il suo grado di eccellenza, la sua immagine, l’esclusività del know-how, il livello di servizio, la carica di innovazione, tutti fattori su cui va riposta massima attenzione perché aumentano il valore percepito. C’è poi consapevolezza che i mercati più piccoli garantiscono un minor numero di concorrenti, in particolare delle grandi società internazionali: è la conseguenza del posizionamento su segmenti limitati, ma omogenei e profittevoli. Inoltre, operando con una clientela ridotta, è più facile adeguare l’offerta alla domanda, rispondendo nel migliore dei modi ai bisogni dei clienti. Ed ancora, la scelta di nicchia, grazie alla maggiore flessibilità, fa affrontare meglio i cambiamenti radicali di settore, facendo leva anche sulle nuove tecnologie e sul mercato elettronico, nonché sul presidio di competenze distintive. Nel marketing di nicchia, insomma, un’azienda – per quanto piccola – non impone soltanto il proprio prodotto, ma commercializza soprattutto se stessa, con i suoi valori, la sua immagine, il suo marchio. Diventano, quindi, centrali anche la dimensione relazionale della strategia d’impresa, il brand, la comunicazione, perché legami forti e duraturi costituiscono il più sicuro investimento. E non va dimenticato che molti mercati di grandi dimensioni sono evoluzioni, appunto, di nicchie. Parlando di Falerno, infine, non si può che chiudere questo intervento con una massima del grande poeta romano Orazio, maestro di eleganza e di ironia: “Nessuna poesia scritta da bevitori d’acqua può piacere o vivere a lungo. Da quando Bacco ha arruolato poeti tra i suoi Satiri, Elfi e Fauni, le dolci Muse san sempre di vino al mattino”.
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