“E’ una protezione o una preoccupazione?”. E’ il sintetico ma efficace quesito che lancia Antonio Cianciullo dal suo blog su “Repubblica”. Oggetto del dubbio amletico è il “Ttip”, acronimo che sta per Transatlantic trade and investment partnership, cioè il maxiaccordo commerciale di libero scambio in trattativa tra Unione europea e Usa dal luglio 2013. E’ giunto all’ottavo round negoziale a Bruxelles, inizio febbraio 2015.
Di che si tratta, nella sostanza, dal momento che la materia – a distanza di quasi due anni dalle prime trattative – è ancora oggetto sconosciuto ai più, compresi quei parlamentari italiani intervistati in una recente puntata della trasmissione tv “Report” che hanno dimostrato lo spaesamento assoluto di fronte a questa impronunciabile sigla?
L’importante accordo internazionale, che sta coinvolgendo le due principali aree produttive e commerciali dell’Occidente (insieme rappresentano circa la metà del Pil e un terzo del commercio mondiale), ha un obiettivo primario: integrare i due maggiori mercati mondiali, con relative appendici, in una forma estremamente liberista. In particolare il settore agroalimentare, ma non solo. Traguardi finali: rimuovere barriere, allentare norme, abbattere controlli per la circolazione delle merci, ridurre dazi doganali e, viceversa, omologare le procedure, gli standard applicati ai prodotti, le regole sanitarie e fitosanitarie.
Si tratta, quindi, di cambiamenti epocali, che avrebbero ripercussioni enormi – i dettattori le definiscono “apocalittiche” – anche su privacy, brevetti, copyright, fonti energetiche, consumi agroalimentari. Di fatto tutto ciò favorirebbe ulteriormente la libera circolazione delle merci, imponendo la globalizzazione quale regola primaria anche per gli investimenti e l’accesso indiscriminato ai mercati dei servizi e degli appalti pubblici.
Resta l’iniziale punto di domanda: sarà un’opportunità o una iattura? Cioè pro o contro questo ulteriore cambiamento globale, dai contorni ancora poco chiari?
LE RAGIONI DEI SOSTENITORI – I favorevoli al trattato, tra cui il premier Renzi, vedono con favore l’ulteriore apertura dei mercati, con la riduzione della burocrazia connessa alle esportazioni e la possibilità di accogliere nuovi investimenti. Una spinta che, nelle logiche del “Ttip”, potrebbe aumentare la produttività, alimentare l’offerta e la concorrenza, determinare la crescita dell’occupazione, far diminuire i prezzi dei beni e dei servizi. Per quanto riguarda l’Italia, i sostenitori del trattato ritengono che potrebbe darci una mano per difendere i prodotti tipici dalle falsificazioni del cosiddetto Italian sounding.
Secondo il governo italiano, inoltre, il Trattato transatlantico potrebbe garantirci un aumento del Pil tra lo 0,5 e addirittura il 4 per cento grazie soprattutto alla crescita delle esportazioni (calcolata in un più 28 per cento), oltre a più posti di lavoro. In base ad una pubblicazione del Centre for economic policy research di Londra, che lo scorso anno ha prodotto per Bruxelles una ricerca che giustifica l’adozione del trattato, l’accordo potrebbe determinare una crescita di 90 miliardi di euro per l’economia Usa e di 120 miliardi – pari allo 0,5% del Pil – per quella europea.
Ma si tratta di cifre tutte da dimostrare, specie se affiancate alle previsioni sui Pil degli ultimi anni, puntualmente smentite dalla realtà. Tuttavia lo scontro più forte, al di là dei numeri, investe le due tradizionali e contrapposte visioni ideologiche dello sviluppo. Da una parte coloro che ritengono l’attuale sistema capitalistico l’unica garanzia per la civiltà faticosamente conquistata. Dall’altra, invece, chi non ci sta, non solo per ragioni di “appartenenza” politica, ma soprattutto perché inorridisce all’idea che con un colpo di penna si possano scardinare le storiche strutture giuridiche e democratiche dei Paesi firmatari.
IL FRONTE DEGLI OPPOSITORI – Tra i contrari, indubbiamente, primeggia l’ideologia antagonista alle logiche neoliberiste. I paladini dei diritti individuali, ma anche quelli che oggi difendono la sovranità degli Stati (e che forse fino a ieri lottavano contro gli Stati-nazione), denunciano innanzitutto la preoccupante segretezza che avvolge i contenuti delle trattative, segno di una grave minaccia per la democrazia e per lo stato di diritto. Non a caso la senatrice democratica statunitense, Elizabeth Warren, critica per la poca trasparenza del negoziato, ha affermato che “Wall Street, aziende farmaceutiche, telecom, grandi inquinatori stanno sbavando” davanti a tale opportunità, che sta passando sottotraccia per le grandi proteste che troverebbe se diventasse di dominio pubblico.
Entrando poi nel merito, il crescente fronte di opposizione denuncia, in uno dei tanti documenti diffusi in questi giorni su internet, “una possibile riduzione degli standard sociali, ambientali e lavorativi, la minaccia per la protezione dei dati personali e dei diritti dei consumatori e la deregolamentazione delle risorse culturali e dei servizi pubblici (come l’acqua) in trattative non trasparenti”.
I DIRITTI A RISCHIO – Appare in particolare preoccupante la possibile introduzione, grazie al solito “Ttip”, di un arbitrato internazionale (denominato Isds o Investor-state dispute settlement) che permetterà alle imprese – per lo più potenti multinazionali – di intentare cause contro i governi dei Paesi europei per “perdita di profitto”, qualora questi portassero avanti legislazioni che possano mettere in discussione le aspettative di profitto del mondo imprenditoriale.
Ipotesi, del resto, già accaduta nella realtà, seppure in casi per ora sporadici. Emblematica, ad esempio, la vicenda che vede protagonista il gigante svedese dell’energia Vattenfall. Ad ottobre 2014 questa multinazionale ha chiesto al governo tedesco 4,7 miliardi di euro a titolo di risarcimento per l’abbandono del nucleare deciso nel 2011 da Angela Merkel dopo la tragedia giapponese di Fukushima. Analogo il braccio di ferro tra la multinazionale Veolia e il governo egiziano, “colpevole” di aver aumentato il salario minimo dei lavoratori.
Le ulteriori limitazioni del potere dei singoli Stati, in particolare con l’impossibilità di legiferare in alcune materie, determinerebbe – di certo – l’ennesima sottrazione di sovranità nazionale a fronte del rafforzamento delle multinazionali, con pesanti ricadute su diversi settori economici, soprattutto assicurazioni, banche, telecomunicazioni e servizi postali. Problemi si potrebbero determinare nei campi dei brevetti, dei copyright, della privacy, dei servizi pubblici e dell’agroalimentare.
Altre preoccupazioni riguardano la qualità non solo dei carburanti e delle fonti energetiche, ma soprattutto dei cibi. In Europa, tra i rischi concreti, si teme l'ingresso di alimenti di cattiva qualità prodotti dalle multinazionali americane, come vegetali e carne Ogm, o prodotti imbottiti di ormoni e fitormoni.
A tutto ciò va aggiunto che persino i giudici europei con le proprie sentenze non potranno più opporsi ai prodotti statunitensi perché il “Ttip” potrebbe obbligare i cittadini europei, singoli e in associazione, a rivolgesi, non al giudice nazionale, ma ad un tribunale di natura privata per tentare un arbitrato lottando a proprie spese contro gli staff legali delle multinazionali. Altre fonti denunciano la possibilità, per le multinazionali agroalimentari americane, di fare incetta di terreni per impiantarvi piantagioni Ogm al posto delle coltivazioni dell'agricoltura tradizionale.
Preoccupazioni investono anche il mondo del lavoro: meno tutele grazie al depotenziamento delle norme nazionali, dei diritti sindacali e lavorativi, ribasso dei salari (gli stipendi dei lavoratori europei sono attualmente più alti di quelli americani). Insomma, l’attacco più duro potrebbe riguardare proprio i diritti e le libertà individuali e collettive.
LE VOCI AUTOREVOLI – Se a favore degli accordi troviamo soprattutto le multinazionali, il mondo finanziario e ampi settori della politica, tra le voci contrarie non mancano illustri studiosi indipendenti.
Ad esempio, l’economista statunitense Joseph Stiglitz, premio Nobel nel 2001, taglia corto sostenendo che tutto ciò comporterà una riduzione delle garanzie e una mancanza di tutela dei diritti dei consumatori.
L’ambientalista indiana Vandana Shiva si sofferma su uno dei temi a lei più cari, il tentativo di “brevettare” l’intera esistenza umana da parte delle multinazionali: “La minaccia finale del ‘Ttip’ viene dai diritti di proprietà intellettuale, definiti come ‘riconoscimento dei diritti morali ed economici dei creatori sulle loro creazioni’. Oggi si cerca di trattare come prodotti intellettuali semi e forme di vita. Negli Stati Uniti, dove una giurisprudenza falsa e distorta dal punto di vista etico ha effettivamente superato i limiti, gli agricoltori sono stati citati per aver conservato i semi, per aver fatto crescere le colture da semi comprati al mercato 'libero'”.
C’è chi mette in dubbio anche i ventilati benefici commerciali. Uno studio della Tufts University del Massachussets pone in discussione l’efficacia economica del trattato, denunciandone un effetto di disarticolazione sui mercati, depressione della domanda e conseguente diminuzione del Pil, soprattutto europeo.
Monica Di Sisto, che fa parte del gruppo di coordinamento della campagna “Stop Ttip Italia”, svela che si tratta di “un meccanismo per cui ogni nuova regola che esiste o che vorremo introdurre non dovrà disturbare gli affari delle grandi imprese. Se vorranno tutelare l’ambiente o i nostri diritti, gli Stati dovranno fargli sapere come e in anticipo, e se si dichiarassero danneggiati, dovrebbero per forza metterci d’accordo, anche se dovessimo rimetterci il lavoro o la salute. E’ questo il vero e proprio cuore del ‘Ttip’, che vogliono tenerci nascosto”.
Marco Bersani, altro coordinatore di “Stop Ttip Italia”, spiega che l’iniziativa andrà ad indebolire notevolmente la capacità di regolamentare qualsiasi materia da parte delle autorità democraticamente elette. “Alcuni passaggi del testo – sottolinea – evidenziano come non solo i beni ma anche i servizi siano inclusi in questo meccanismo e vale la pena di ricordare che i servizi pubblici non sono mai stati chiaramente esclusi dal negoziato, come si può osservare dai pochi testi ufficiali diffusi tra cui il Mandato negoziale”. La campagna di raccolta firme, fanno sapere i promotori, ha ampiamente superato il milione e trecentomila adesioni in tutta Europa.
LA “MODA” DEI TRATTATI – Il “Ttip”, che tratta principalmente di agroalimentare, non è il solo trattato al centro delle polemiche. E’ in atto una vera e propria “strategia dei trattati” che vede contemporaneamente presenti tavoli di trattative in tutto il mondo.
Il “Tpp” (Trans-Pacific partnership), ad esempio, è il più grande trattato economico mai realizzato, che comprende le nazioni che rappresentano oltre il 40 per cento del Pil mondiale. La decisiva attuazione del “Tpp” è avvenuta a Salt Lake City, nello Utah, nel novembre 2013. Investe campi strategici come la sanità, l’editoria, internet, i brevetti e le libertà civili. Persino Wikileaks ne ha diffuso parte delle segretissime disposizioni. La strategia è sempre la stessa: sottrarre sovranità ai singoli Stati a fronte di nuove regole comuni e affidare i contenziosi a tribunali sopranazionali.
Un altro trattato riservato con analoghe caratteristiche, noto come “Tisa” (Trade in services agreement), coinvolge una cinquantina di Paesi. Il fatto grave è che, non essendo esaminato all’interno dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), avviene in modo quasi segreto, non prevedendo discussioni “trasparenti” né la pubblicità degli atti. Tra i maggiori sponsor del trattato vi sarebbe la Coalition of services industries, lobby americana che spinge per la privatizzazione dei servizi.
Come scrive Marco Schiaffino sul “Fatto quotidiano”, l’obiettivo dell’accordo è quello di “eliminare tutte le leggi nazionali che sono considerate come ‘ostacoli’ al commercio dei servizi in ambito finanziario”, ovvero “un copione che ricalca i trattati approvati nel 2000 e che, secondo molti economisti e governi, hanno rappresentato la causa principale della recente crisi finanziaria globale”.
Tra le norme da eliminare, spiccano quelle relative ai limiti alle dimensioni degli istituti finanziari, mentre si mira a privatizzare la previdenza e le assicurazioni. In questa “saga dei trattati” c’è chi ricorda gli effetti fallimentari, specie per i diritti dei lavoratori e per la giustizia sociale, di accordi passati analoghi al Ttip, specie per gli anelli deboli del partnenariato,. E’ il caso del Nafta (North American free trade agreement), l’accordo per il libero scambio stipulato tra Usa, Canada e Messico nel 1992 (sul modello dell’Fta, accordo di libero commercio già esistente tra Canada e Stati Uniti), che ha inciso in modo disastroso sull’economia messicana e sull’emigrazione negli Usa.
Tra le altre iniziative contestate vanno ricordati i nuovi negoziati nell’ambito del “Gatt” (Accordo generale sulle tariffe e il commercio) e “Gats” (Accordo generale sul commercio dei servizi) sono finiti al centro delle proteste a Seattle nel 1999 e al G8 di Genova del 2001. Nel 1999 a Seattle si manifestò anche contro il cosiddetto “Ami” (Accordo multilaterale sugli investimenti), poi ritirato dall’Ocse.
Al di là dei catastrofismi, c’è davvero il rischio che a decidere sulle controversie non saranno più i giudici ma entità private autorizzate dai trattati e vicini alle lobby? Davvero questa frenesia di accordi mira al benessere globale o piuttosto ai soliti soggetti, banche e multinazionali?