E’ crisi drammatica quella che sta vivendo, ormai da qualche anno, il patrimonio suinicolo nazionale, che rappresenta poco più del cinque per cento del complessivo patrimonio suinicolo dell’Unione europea a 27 Paesi. L’Italia è quindi uno dei più importanti produttori comunitari, insieme a Germania, Spagna, Polonia, Francia, Danimarca e Olanda. Se la crisi è globale, soprattutto per l’aumento dei costi, la situazione italiana è più orientata al peggio, tanto che ora, oltre a mettere a rischio la produzione di alcuni dei più celebri salumi Dop e Igp come i prosciutti di Parma e di Modena, il culatello di Zibello, i salumi piacentini, i cotechini e gli zamponi, sta anche falcidiando il mercato occupazionale: sono, infatti, ottomila i posti di lavoro in meno dall’inizio della recessione in un settore che occupa complessivamente 105 mila addetti, di cui 50 mila negli allevamenti e 55 mila nell’industria di trasformazione e nei servizi.
Emblematico il caso del prosciutto crudo di Parma, immagine dell’agroalimentare italiano, che sta perdendo ogni anno circa 700mila unità nel mercato nazionale, segnale nefasto leggermente attutito dai consumi all’estero, dove l’incremento annuo è di 100mila pezzi. Rimanendo in zona, a Modena, negli ultimi dieci anni, hanno chiuso i battenti 300 aziende, pari ad un calo del 64 per cento. Ma è l’intera regione Emilia-Romagna, dove viene allevato il 13,3 per cento degli oltre 9,3 milioni di maiali degli allevamenti italiani (altre rilevanti quote in Lombardia, soprattutto nelle province di Cremona e di Mantova, Piemonte e Veneto), a pagare un prezzo altissimo: tra il 2000 e il 2010 i capi allevati sono passati da 1.555.000 a 1.247.000 con un calo del 20 per cento e gli allevamenti di maiali sono passati da 4.438 a 1.179 con un calo del 73 per cento. Soltanto tra il 2011 e il 2012 sono stati prodotte 12 mila tonnellate di carni di maiale in meno.
La crisi investe, quindi, soprattutto il mercato delle carni suine di pregio del nostro Paese.
Il paradosso di tutto ciò, come spesso avviene, è che per coprire il consumo di 2,15 milioni di tonnellate di carni di maiale annui importiamo ormai 850 mila tonnellate di prodotto, pari al 40 per cento del consumo. Quali le cause principali di questo disastro che rischia di condurre il settore ad un crack definitivo? I motivi sono molteplici. C’è l’aumento vertiginoso dei costi di produzione primaria, in particolare di materie prime utilizzate per la razione giornaliera degli animali (cereali e semi oleosi) e di risorse energetiche. L’aumento della tassazione non ha certo migliorato le cose. Nel contempo non sono aumentati i prezzi pagati ai produttori: anzi, le quotazioni nazionali dei suini non riconoscono il differenziale di qualità dei suini dedicati alle denominazioni italiane rispetto alle produzioni europee. Un esempio? Il prezzo del suino Dop, tra ottobre 2012 e 2013, è sceso del 15 per cento, mentre i costi di produzione per lo stesso periodo sono cresciuti di quasi il 10 per cento.
A ciò si aggiungono gli squilibri nella filiera: secondo una stima attendibile, per ogni 100 euro spesi dal consumatore in salumi, circa 50 euro vanno ai distributori, 22 al trasformatore industriale, 10 al macellatore e solo 18 euro all’allevatore. I conflitti nella distribuzione del valore tra i vari anelli della filiera non fanno certo bene all’intera economia del comparto. C’è poi la questione della crescente concentrazione produttiva nella fase della macellazione. Infine la concorrenza straniera, spesso determinata dal basso costo e, conseguentemente, dalla scarsa qualità. Emerge il solito problema della mancanza di informazione, che rende indistinguibile il prodotto italiano. Spesso prodotti con marchio nostrano arrivano in realtà da paesi stranieri, Germania in primis (52 per cento delle nostre importazioni di carne di maiale). Tra le questione sul tappeto, anche l’eccessiva frammentazione delle rappresentanze del settore e la capacità storica dei produttori del Nord Europa di fare lobby negli uffici comunitari.
Cosa chiedono gli allevatori? Innanzitutto l’etichettatura obbligatoria dell’origine degli alimenti, ad esempio l’introduzione di un bollino che garantisca la carne “made in Italy”. Poi la riduzione dei costi di smaltimento. Ed ancora, una seria lotta alle contraffazioni. Tra le altre proposte, il fatto che il ministero della Salute renda pubbliche le aziende importatrici e bloccare ogni finanziamento pubblico ad imprese dell’industria alimentare che danneggiano la competitività nazionale. C’è poi un paradosso: le cosce dei maiali italiani sono troppo magre, secondo la normativa comunitaria, per rientrare nella griglia europea delle produzioni Dop. Così si finisce per importare carne grassa. Secondo uno studio del Crpa di Reggio Emilia, il Centro ricerche produzioni animali, su un campione di 21.500 maiali destinati al circuito tutelato, oltre il 20% delle cosce italiane di maiale analizzate sono troppo magre per diventare prosciutto crudo di Parma Dop.
“Occorre decidere una volta per tutte che l'origine del prodotto diventa fondamentale per la sua promozione – ha sottolineato l’assessore regionale lombardo all’Agricoltura Gianni Fava intervenendo al forum Italpig, nell'ambito della rassegna suinicola di Cremona. “Non è irrilevante il fatto che un suino rientri nel ciclo di nato, allevato e macellato nello stesso Paese – ha continuato l’assessore. “Non potendo intervenire sul mercato, bisogna definire regole che stabiliscano questo principio. Quello che non possiamo permetterci è che muoia il comparto, che le aziende chiudano. Le dinamiche di mercato possono essere invertite con investimenti – ha aggiunto l'assessore – ma con il Programma di sviluppo rurale (Psr) possiamo solo accompagnare l'intervento di un privato, oggettivamente in difficoltà in questo momento a mettere del proprio. Il ministero ci consenta di liberare immediatamente risorse per affrontare la crisi drammatica di questo settore, come ha fatto la Francia mesi fa, intervenendo a livello regionale con contributi alle imprese – 15 milioni di euro – di Bretagna e Normandia”.
E il futuro? Alcuni allevatori, specie molti di quelli che vendono in perdita, mettendo in discussione la stessa sopravvivenza del settore e la fornitura delle filiere di qualità, per alleviare i costi, stanno intanto passando dall’allevamento del “suino pesante” (sui 170 chili), utilizzato per la produzione delle cosce del prosciutto di Parma, al “suino leggero” (sui 130 chili), usato invece per i prosciutti cotti e per la vendita diretta di carne suina.