L'autorizzazione all'utilizzo di prodotti tradizionali anti-riscaldo delle pere in post-raccolta – si legge nella comunicazione ufficiale della Direzione generale per l'igiene e la sicurezza degli alimenti e la nutrizione (Ufficio VII Prodotti fitosanitari) del MinSal – è stata rigettata in quanto, rispetto al parere del giugno 2012, non vi sono nuovi elementi tali da consentire la valutazione del rischio per il consumatore. In questo modo si aprono due questioni prioritarie. Innanzitutto, il mancato utilizzo in deroga al vietato uso – ottenuto da altri Paesi comunitari produttori di pere, come Spagna e Portogallo – mette i produttori italiani nella condizione di subire la concorrenza sleale di chi, come già nel 2013, potrà trattare e commercializzare, ma anche esportare, le pere in tutto il mondo per più tempo.
In secondo luogo, i cittadini italiani non saranno tutelati dall'offerta di frutti(trattati) provenienti da altri Paesi. La decisione, infatti, riguarda il divieto all'impiego dei prodotti anti-riscaldo, ma non limita o impedisce di importare, e vendere, le pere straniere che hanno ricevuto quello stesso trattamento. Né si sta pensando di informare il consumatore italiano rispettivamente al presunto "rischio" che corre acquistando pere provenienti dall'estero (mentre è proprio a causa di questo eventuale rischio che i produttori italiani non potranno più competere ad armi pari con gli altri frutticoltori europei). Dunque, chi veramente può essere considerato avvantaggiato da questa decisione del Ministero della Salute? Il primato dell'Italia di primo produttore di pere in Europa – sia in termini di quantità che di valore, con una PLV (Produzione lorda vendibile) stimata in circa 450 milioni di euro – è ovviamente a rischio. Nella sola campagna 2013/14, il mancato utilizzo dei prodotti anti-riscaldo ha comportato la perdita di un quarto della produzione commercializzabile. Prendendo a riferimento le giacenze al 1° gennaio 2014, le quantità ritenute non idonee alla vendita sono state pari a circa 82.000 tonnellate, per un valore di quasi 63 milioni di euro. Ovviamente, questa cifra si riferisce esclusivamente al costo del prodotto e non tiene conto del mancato guadagno.